domenica, aprile 10, 2005

Il rumore del sole che aiuta a vivere e a scrivere

Marcella Marcelli
Con Il rumore del sole (Il vicolo editore, euro 14.00, pp, 117), Saverio Tutino ci regala un nuovo capitolo della “saga” dedicata a se stesso. Un contributo prezioso, alla cui lettura c’introduce l’autore stesso, giornalista e scrittore, delineandone i tratti salienti: “Due amici e due miti spenti nella confusione della guerra fredda. Un amore mancato e uno riscaldato. Uno scudo infranto. Cinque racconti dall’infanzia alla vecchiaia”. In realtà, nelle pagine de Il rumore del sole c’è molto più di questo. Tutino ha inventato uno stile, “una modalità di raccontare la vita”, originale ed efficace, come ben sintetizza Lidia Ravera, che firma la presentazione: “Un uomo che vive viaggiando nella politica e per la politica, si muove fra Cuba e l’Uruguay, Parigi e Bruxelles, eppure non smette mai di viaggiare anche dentro se stesso”. E fa tutto questo, si può aggiungere, intrecciando coraggiosamente, senza enfasi, l’io e il mondo, la storia e le vicende più intime e dolorose. L’autore ripercorre gli ultimi venticinque anni della sua vita passando dalla rivoluzione cubana all’infarto, dal terrorismo brigatista al cancro, senza che variazioni di tono o di ritmo sottolineino il passaggio da una dimensione all’altra ma mantenendo sempre lo sguardo di chi cerca le radici degli avvenimenti nei quali è immerso. “Evocare un tempo lontano vuol dire anche riappropriarsi di sé”, si legge a pagina 82, e sta forse anche in questa affermazione il senso di una autobiografia scritta e riscritta continuamente, disseminata in una dozzina di libri e in innumerevoli articoli: un diario lungo come la vita. Il diario, l’autobiografia, come strumenti prediletti del “vedere sé attraverso gli altri”, pur riconoscendone il carattere di “scrittura essenzialmente inaffidabile”. L’abitudine e l’amore del viaggiare nel mondo degli altri, perché solo questo può fornire il respiro che manca quando si bada a sé, ha portato Tutino a dare vita a Pieve Santo Stefano al primo Archivio dell’Autobiografia popolare sorto in Europa. Cinquemila diari e memorie della cosiddetta “gente comune”, raccolti in vent’anni, dal 1984 al 2004, “per la memoria degli italiani”. Ma Il rumore del sole è soprattutto una lunga, sofferta riflessione sulla scrittura misura del mondo e medicina dell’anima (per Tutino, scrivere è diventato ancora di più un rovello dal 1989 in avanti, anno che ha cambiato il mondo e le certezze in cui aveva vissuto fino a quel momento: scrivere è servito pure a interrogarsi su quei cambiamenti senza ritrarsi in difesa). Le parole di Montaigne soccorrono l’autore nel cogliere il potere taumaturgico del raccontarsi: “Dipingendomi per gli altri mi sono dipinto a colori più netti che non fossero i primitivi. Non sono tanto io che ho fatto il mio libro quanto il mio libro che ha fatto me” (pagina 86). E, ancora, ricorrendo stavolta a Rousseau: “Capisco che il lettore non abbia troppa voglia di sapere tante cose, ma ho bisogno io di dirgliele”. Ma l’intenzione costante di non fare di se stesso “il personaggio principale della propria vita” emerge soprattutto dai ricordi di Saverio Tutino inviato speciale in America Latina, nella Francia di De Gaulle, nell’Urss di Stalin e nella Cina di Mao. Nei suoi viaggi l’incontro con destini spesso straordinari gli consente di usare il mito come punto d’appoggio per costruire una moderna cultura della resistenza contro i meccanismi del dominio del mondo ricco su quello povero. Tutino ha quarant’anni quando, nel 1962, l’Unità lo invia a Cuba. Viene dalla Resistenza in Piemonte e Valle D’Aosta (nel 1944 e 1945 era stato commissario politico della 76ª Brigata Garibaldi). A L’Avana ascolta Ernesto Guevara parlare ai giovani, dicendo loro che dovevano restare vigili, soprattutto di fronte all’ingiustizia, “capaci di disobbedire e di opporsi”, di “saper discutere e chiedere chiarimenti su tutto ciò che non è chiaro”. Mentre racconta Cuba, la memoria corre a un compagno di scuola, Lorenzo Milani. Lui e Tutino hanno frequentato lo stesso liceo a Milano, negli anni “in cui Mussolini imponeva il fascismo, un modo di vivere senza pensare”. Tutino, invece, che nel dopoguerra era diventato “giornalista militante”, ha pensato sempre che si potesse essere militanti “senza assecondare il modello di una cultura di partito”. Non così i dirigenti del Pci di allora, se è vero, come ricorda il protagonista di quelle vicende, che “Pajetta ripeteva che sembravo più militante del partito cubano che del partito italiano”. E, alla fine, Tutino pagherà con l’esonero la propria libertà intellettuale che continua a esercitare tuttoggi.Ultima annotazione. Nei racconti che hanno date più recenti e forma più esplicita di diario, ricorre ripetutamente il nome di Gloria: la compagna e la moglie a cui questo libro è dedicato. Insieme, ascoltano “il rumore del sole”.

Le nostre ultime conversazioni erano all’insegna del futuro

Un uomo e un dirigente politico a tutto tondo
Le nostre ultime conversazioni erano all’insegna del futuro


Alfonso Gianni

Liberazione 29 dicembre 2004
Ho conosciuto Eliseo Milani tardi. Tardi, relativamente alla sua lunghissima militanza politica. Ormai è passato esattamente un quarto di secolo che non è certo poco nella frequentazione tra persone. Lo conobbi che lui era già un'autorità nel variegato campo della sinistra alla sinistra del Pci. Per di più aveva avuto un passato importante nel Pci, particolarmente in quel di Bergamo; aveva fatto parte del gruppo storico del Manifesto; era un dirigente del Pdup. Lo conobbi in una circostanza tra le meno propizie, nel corso di una trattativa che per quanto limitata fu anche aspra e che ci vedeva di fatto contrapposti, ognuno a rappresentare gli interessi legittimi della propria organizzazione. Si trattava di decidere gli accordi elettorali tra Pdup e Mls per le elezioni politiche del 1979. Eliseo incuteva un certo timore, aveva fama di uomo burbero e comportamenti spesso scontrosi. Non faceva grandi giri di parole e andava al sodo. La circostanza era quindi quella dove può nascere un odio o un amore, l'indifferenza era esclusa. Da parte mia nacque una stima e un affetto profondi. Che solo un comprensibile ritegno mi impediscono di definire con un sostantivo più impegnativo. Quella stima e quell'affetto si sono rafforzati negli anni, nel lavoro politico e parlamentare, nella frequentazione privata, quest'ultima diventata particolarmente intensa quando le condizioni di salute lo costrinsero ad abbandonare la politica attiva. Ma Eliseo non abbandonò certo il filo di un lungo ragionamento politico che egli continuamente proponeva, fornendo consigli sempre dettati da un grande senso della realtà. Chi ritenesse che Eliseo non sia stata prevalentemente un teorico, direbbe il vero; ma chi pensasse che egli sia stato essenzialmente un buon organizzatore ed un tenace uomo di partito, coglierebbe solo un piccolo aspetto della sua più complessa personalità. Eliseo è stato un uomo e un dirigente politico a tutto tondo. La grande politica era la sua passione. La politica comunista, quella che non può nemmeno essere pensata senza una profonda conoscenza dei movimenti reali della società, senza una intensa connessione sentimentale con il popolo.
Qui stavano le radici di Eliseo. Lo dimostravano anche i suoi racconti, quando parlava della vita concreta di tanti anni fa, nelle valli bergamasche, di quella dignitosa ma severa povertà, che egli ricordava senza lacrimosità né retorica, anzi con quella ironica nostalgia che caratterizza le persone che hanno il senso della storia e della complessità delle vicende umane. Se vi capitasse di entrare nell'ultima casa abitata da Eliseo a Roma, la trovereste pieni di libri di storia e di storia delle idee, più che di cronache politiche. Ma proprio queste letture, conquistate senza avere avuto la fortuna di una formazione scolastica adeguata a quella che è stata la sua vita, gli permettevano di alimentare fiuto ed intuito politico e di meritare una considerazione anche in ambiti molto diversi dai nostri che non è mai venuta meno.
La sua vicenda politica appare, almeno a me, paradigmatica ed invidiabile. Eliseo è stato un costruttore del comunismo italiano, ma non si è mai adagiato sui suoi risultati. Ha sempre scelto una strada in salita e scomoda, guardando in avanti e non indietro a quello che lasciava, e l'ha percorsa con intelligenza, coraggio e grande umanità, appena velata, forse per atavico pudore, dalle spigolosità del carattere.
Ora questa vita si è conclusa. La sua fine non ci giunge inattesa, ma non per questo meno dolorosa. Negli ultimi tempi la sua esistenza era come una corda che si tendeva sempre di più, pronta a spezzarsi in ogni momento, ma la forza del suo animo e persino del suo umore non l'hanno mai abbandonato. Le nostre ultime conversazioni erano all'insegna del futuro, sia per le grandi come per le piccole cose. Posso pensare, perciò, che si sia spento sereno. Sono convinto che l'ha fatto anche per non farci soffrire. Ciao, Eliseo.

Matteo Rossi nuovo segretario della Sinistra Giovanile

Matteo Rossi nuovo segretario della Sinistra Giovanile
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Roncalli su 18/1/2005 15:48:00 ( Trizio Web )
Matteo Rossi è stato eletto segretario dei Democratici di Sinistra della Città di Bergamo durante il congresso di sabato scorso con il 71% dei voti dei delegati. Rossi, 28 anni, laureando in scienze politiche, membro della rete del Nuovo Municipio, negli ultimi tre anni è stato segretario provinciale della Sinistra giovanile, incarico assunto dopo anni di formazione all’impegno socio-politico nell’Oratorio di Bonate Sopra e nel Vicariato dell’Isola bergamasca. Al Congresso dei DS non ha aderito alcuna mozione, sostenendo invece le linee espresse dal “documento dei 22” e rifacendosi alle posizioni espresse da leaders nazionali come Walter Veltroni, Giovanna Melandri, Sergio Cofferati. A livello locale ha partecipato al congresso attraverso un documento intitolato “Capovolgiamo le piramidi” sostenuto in modo trasversale all’interno del partito. Nella sua relazione introduttiva Rossi ha ricordato le figure dei compagni Eliseo Milani e Fioravante Branca, ha individuato come funzione principale dei DS di Bergamo in questo periodo storico la costruzione di un popolo e una dimensione europea a partire dal basso, in particolare dalle scelte e dagli stili amministrativi del Consiglio comunale e della Giunta Bruni. Ha inoltre posto come uno dei temi prioritari la riforma organizzativa del partito, una maggior apertura e la capacità di sperimentare nuove forme di democrazia partecipata dentro il centrosinistra e sul territorio cittadino a partire dalla costruzione della Federazione dell’Ulivo e della Grande Alleanza Democratica come casa comune e partecipata per tutto il popolo del centrosinistra. Ha infine posto come temi decisivi per la città la risoluzione della vicenda Gleno, l’adozione di un fondo per la cooperazione internazionale e l’avvio di progetti per una Bergamo ecostostenibile e multiculturale. Nelle prossime settimane la nomina della segreteria e degli incarici tematici completeranno il quadro del nuovo gruppo dirigente diessino in città.Matteo Rossi è contattabile attraverso i seguenti canali: mail:
mat.ro@virgilio.it cellulare: 3480469799fisso: 035248180

La conclusione di un'esperienza politica

La conclusione di un'esperienza politica
Vent'anni fa il PdUP confluiva nel PCI


Vent'anni fa, tra l'estate e l'autunno del 1984, si concludeva la vicenda politica del PdUP per il Comunismo, con la confluenza (per molti si trattava di un ritorno) della grande maggioranza dei suoi quadri nel PCI.
Una storia importante per chi l'ha vissuta, ma anche per l'anomalia rappresentata dalla "multiformità" di questa formazione politica, tra rotture, scissioni e aggregazioni (i tempi erano davvero diversi dagli attuali...) a cavallo tra la tradizionale sinistra comunista e la nuova sinistra d'estrazione sessantottina; tra la "forma partito" classica e la specificità della contigua (e, nella prima fase, sovrapposta) esperienza del "Manifesto", rivista, gruppo politico, quotidiano.
Non dispongo, com'è noto, delle capacità culturali per analizzare adeguatamente l'esperienza del PdUP (al momento dello scioglimento uscì un mirabile istant-book, redatto da Aldo Garzia), ma intendo egualmente correre il rischio di scriverne, sia pure brevemente, proprio perché mi è capitato di partecipare a quell'esperienza, dall'inizio alla fine. La storia del PdUP è strettamente connessa con quella del "Manifesto", gruppo politico interno al PCI aggregatosi dopo l'XI Congresso del 1966. Un gruppo politico che rappresentò, a quel punto nell'immediato post-Togliatti (a giudizio di Rossana Rossanda), l'ultima e forse più coerente, completa e radicale espressione della tesi gramsciana prima, ed ingraiana poi, della "guerra di posizione" come forma matura e presente nella rivoluzione italiana.
Il Manifesto nacque attorno a questo nucleo originario di pensiero, come dissidenza interna al PCI: solo in seguito si pose come punto di riferimento d'esperienze diverse o affini. Una dissidenza interna al PCI che aveva preso le mosse dalla ripresa delle lotte verificatasi alla fine degli anni'50, attraverso l'elaborazione delle tematiche del capitale e della fabbrica (si pensi a Panzieri ed ai "Quaderni Rossi"); dall'impatto dei fatti del Luglio '60 (ultimi fuochi della Resistenza o primi vagiti del '68?); sulla riarticolazione dell'analisi sociale, che il PCI svolse fino alla
morte di Togliatti, anche di fronte all'avvento del primo centrosinistra; alla battaglia per la successione dello stesso Togliatti, scomparso nell'estate del 1964, che si arrestò però su di una linea che non riconobbe, davvero, la radicalità della "guerra di posizione".
L'esplosione del '68, la vicenda della "Primavera di Praga" e la successiva invasione della Cecoslovacchia, definirono la posizione di molti dei più prestigiosi compagni che avevano animato, fino a quel punto, la battaglia ingraiana (cui lo stesso Ingrao aveva imposto, sbagliando, il limite di separare l'idea della guerra di posizione, dall'idea della "rottura") fino a far precipitare l'esclusione dal Partito (Novembre 1969; in precedenza, in quello stesso autunno era uscito il primo numero della rivista, accolto con grande curiosità in molti ambienti della sinistra italiana) di Pintor, Rossanda, Natoli; Eliseo Milani, Magri, Castellina, Maone.
Il gruppo del manifesto (mentre attuò la trasformazione della rivista in quotidiano) tentò, allora, diverse strade per l'aggregazione delle forze antagoniste presenti allora nel panorama politico. L'aggregazione più importante fu tentata con gli esponenti dell'ex PSIUP non confluiti nel PCI, dopo la sconfitta elettorale del 1972 (la carta elettorale fu tentata, in quell'occasione, anche dal Manifesto, presentando la candidatura di Pietro Valpreda, in quel momento detenuto per la strage di Piazza della Fontana, con esito fortemente negativo). L'incontro tra gruppo del Manifesto ed ex PSIUP diede origine, nel 1974, alla formazione del PdUP per il Comunismo. Si trattò di una vicenda complessa, il cui scenario di fondo fu rappresentato dalle contraddittorie e drammatiche vicende di quegli anni, contrassegnati dal terrorismo, da una profonda crisi economica, dall'esperienza (tentata dal PCI) della "solidarietà nazionale".
Nel PdUP non vi fu mai vera integrazione tra i due gruppi dirigenti, provenienti da esperienze profondamente diverse e divisi sulle valutazioni di fondo della crisi, e sulle esigenze programmatiche che ne derivavano, per governarla (un'impostazione, quella del "governo della crisi", proveniente dal gruppo del manifesto, in particolare su iniziativa di Lucio Magri, autore, nel Gennaio del 1974, di un importante documento sul tema). La rottura tra Manifesto ed ex PSIUP si verificò definitivamente nel 1977, al culmine dell'esperienza di solidarietà nazionale, che aveva seguito l'esito elettorale del 20 Giugno 1976 e dell'imperversare del terrorismo (che con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, nella primavera del 1978, avrebbe raggiunto il vertice della propria parabola), dopo che già in occasione della presentazione elettorale alle politiche del 1976 si erano avuti segnali di spaccatura (da una parte Foa, Miniati, Capanna, che nel 1975 era stato eletto consigliere regionale in Lombardia, erano per un "listone" unico dei rivoluzionari comprendente Lotta Continua, che poi si fece sotto il simbolo di Democrazia Proletaria raccogliendo un risultato modesto, proprio nel momento della massima espansione elettorale del PCI; dall'altra i dirigenti del "Manifesto" che avrebbero preferito una presentazione elettorale maggiormente omogenea ed "identitaria" di una precisa area della "nuova sinistra", fino a comprendere Avanguardia Operaia).
Negli anni successivi si verificarono altri momenti di rottura e ricomposizione (congresso di Viareggio 1978, con la separazione "incrociata" tra esponenti del "Manifesto", segnatamente con Rossanda e Parlato, e di AO, segnatamente Aurelio Campi, dovuta a divergenze sulla valutazione di fondo circa l'andamento e le prospettive della "solidarietà nazionale", e il rapporto con i movimenti che avevano contrassegnato quella fase degli ultimi anni'70; congresso di Roma del 1981, con la confluenza nel PdUP del gruppo milanese dell'MLS, guidato da Luca Cafiero). Il PdUP, pur profondamente modificato nella sua composizione da questi successivi processi di distacco e di avvicinamento, non abdicò mai al tentativo di rappresentare un punto di riferimento provvisto, nell'ambito della sinistra italiana, di una propria identità di analisi culturale, senza rinunciare, nello stesso tempo, ad in indicare una prospettiva politicamente e programmaticamente praticabile (l'alternativa).
Tra la fine degli anni'70 (una fase contrassegnata, nel PdUP, dalla scelta positiva di presentazione autonoma alle elezioni del 1979, mentre contemporaneamente falliva un nuovo progetto di aggregazione dei "rivoluzionari", presentatosi sotto l'insegna del cartello di N.S.U.) ed i primi anni'80, si agitò ancora un dibattito tra la scelta di cercare di rappresentare un "terzo polo" nella sinistra, e quella di collocarsi decisamente all'interno dell'area comunista, funzionando, nella sostanza, da stimolo critico esterno e da soggetto del dibattito rivolto essenzialmente verso la necessità di una trasformazione del PCI, che, abbandonata la linea della "solidarietà nazionale" su iniziativa del segretario Enrico Berlinguer, stava schierandosi (pur con grandi contraddizioni interne) sulla linea dell'alternativa democratica.
Nel PdUP prevalse, se mi è consentito un "giudizio sintetico a priori" la scelta dell'area comunista, ed in questo senso si realizzò con il PCI l'accordo elettorale del 1983, il cui esito dimostrò la grande capacità di interlocuzione di cui i dirigenti del PdUP disponevano, presso la base e l'elettorato del PCI. L'accordo PCI-PdUP si rinnovò alle Elezioni Europee del 1984:
la morte di Enrico Berlinguer, avvenuta proprio nel corso di quella campagna elettorale, non solo accelerò il processo di crisi e di divisione interna del PCI, ma strinse anche i margini di manovra politica autonoma del PdUP, all'interno dell'area comunista. Derivò così la scelta di confluire nel PCI, concordata con il successore di Berlinguer, Alessandro Natta.
Si trattò di una decisione problematica, accettata dalla stragrande maggioranza del PdUP (non confluirono nel PCI, tra i dirigenti di maggior spicco: Ivano Di Cerbo, Eliseo Milani e Lidia Menapace, quest'ultima in virtù di una sua elaborazione sulla crisi della politica e sul rapporto con i movimenti, fortemente anticipatrice della situazione che si sarebbe creata negli anni a venire). La confluenza del la tessera de Il Manifesto per il Comunismo del 1974 e quella del PdUP dell'anno seguentePdUP nel PCI si inserì, quindi, all'interno della complessa vicenda della parte conclusiva della vita del PCI dimostrando, attraverso la capacità di riflessione e di proposta di quelli che erano stati i suoi principali dirigenti nel periodo conclusivo (con Magri e Castellina, rappresentanti del filo rosso di continuità con l'esperienza degli anni'60, si possono citare Pettinari, Vita, Crucianelli, Serafini) una particolare incisività all'interno della tormentata vicenda della fase di scioglimento del partito, dopo la svolta di Occhetto alla "Bolognina" (si pensi, in particolare, alla relazione svolta da Lucio Magri, al seminario di Arco dell'Ottobre 1990, organizzato dall'area del "NO": una relazione che può essere ancora presa di esempio, quale proposta di un concreto rinnovamento dell'identità comunista italiana).
Diverso fu, invece, l'esito della confluenza di una parte dell'ex gruppo dirigente del PdUP all'interno del progetto di Rifondazione Comunista: i tempi (come si diceva all'inizio) erano irrimediabilmente cambiati e proprio la difficoltà incontrata in quell'occasione dimostrò come, in chiusura, l'esperienza politica originata dal "Manifesto" e poi proseguita con il PdUP (mantenendo, ovviamente, l'avvertenza di tutti i mutamenti nella "composizione sociale" accumulatisi nel corso degli anni) fosse davvero legata ad una particolare, specifica, visione dell'area comunista, con riferimento a quello che era stato, con la sua grandezza, le sue contraddizioni, le sue tragedie il PCI.
Se mi è consentita una valutazione conclusiva, di fondo, posso affermare che il punto di continuità all'interno della vicenda del "Manifesto", gruppo politico, e poi del PdUP come partito, è stato rappresentato dalle tre grandi domande rivolte al PCI, alla fine degli anni'60, dal gruppo di coloro che ne erano stati radiati: la prima domanda riguardava una diversa considerazione dei rapporti sociali e l'attualità di una rottura in Occidente; la seconda domanda riguardava l'urgenza di un'articolazione nella collocazione internazionale, superando fin da quel tempo il legame di fedeltà con l'URSS (un tema sul quale Manifesto e PdUP tennero ferme le posizioni fino ad organizzare, nel 1978 a Venezia, il primo convegno con la partecipazione dei dissidenti "da sinistra" dell'Est. Convegno cui il PCI non ritenne di dover partecipare ufficialmente) la terza domanda si poneva al riguardo dell'aprire la vita del partito alla contaminazione culturale e alla possibilità di rappresentazione di diverse posizioni politiche al suo interno.
Tre punti che, esposti adesso, credo facciano ancora meditare chi visse, pur in diversa posizione, quella fase ormai lontana.
Franco AstengoAgosto 2004

Bergamo, quando nacque "Il Manifesto"

Bergamo, quando nacque "Il Manifesto"

Eliseo Milani
Una città punto di forza del gruppo del Manifesto è stata Bergamo. Qui la sinistra comunista ha potuto contare su adesioni e consenso fin dal 1965, anno preparatorio dell’XI Congresso del Pci che si sarebbe poi svolto a Roma nel gennaio del 1966. Perché proprio Bergamo, città tradizionalmente bianca e dalla forte presa elettorale della Dc?Prima di parlare della vicenda specifica della sinistra comunista, bisogna ricordare che all’inizio degli anni Cinquanta un gruppo di giovani intellettuali abbandonò la Dc chiedendo un’apertura a sinistra per il mondo cattolico: Lucio Magri, Giuseppe Chiarante e Carlo Leidi erano i battistrada. Tutti e tre entrarono in tappe diverse nel Pci nonostante qualcuno a Roma – per esempio Giancarlo Pajetta – avrebbe preferito che costituissero un’organizzazione della sinistra cattolica in grado di impensierire la Dc. Magri avrebbe diretto con Rossana Rossanda il manifesto mensile, Chiarante si sarebbe astenuto sulla nostra radiazione dal Pci, Leidi non si sarebbe mai stancato di occuparsi delle vicissitudini del manifesto quotidiano mettendo le sue doti di atipico notaio al servizio del giornale. Io stesso, che sono stato per undici anni segretario della Federazione comunista di Bergamo, ho fatto parte della pattuglia di deputati che nel 1969 aderirono al manifesto e furono radiati dal Pci (con me, c’erano Massimo Caprara, Luigi Pintor, Aldo Natoli e Liberato Bronzuto).L’esisto dell’XI Congresso del Pci a Bergamo – il primo nella storia di quel partito nel quale una federazione abbia votato a maggioranza un documento in contrasto con il gruppo dirigente nazionale – è l’approdo di un lungo e tormentato dibattito, ma anche di alcuni processi politici che proprio nel capoluogo lombardo si erano dispiegati in nodo originale. Bergamo, all’inizio degli anni Sessanta, era una città dove i comunisti restavano inchiodati al 7-10%. Nelle liste per le comunali i candidati erano quasi tutti operai, con l’eccezione di un medico e di uno o due impiegati. La Dc poteva godere della maggioranza assoluta dei consensi, mentre a noi toccava la rappresentanza della classe operaia delle fabbriche (Dalmine e Ilva in primo luogo). I 100 mila lavoratori del bergamasco erano presenti in due settori fondamentali: tessile-abbigliamento e meccanico-metallurgico. Il Pci, nel dopoguerra, si era soprattutto impegnato a radicare il partito in fabbrica. Il “partito nuovo” di Togliatti non era certo chiuso e autosufficiente nelle alleanze, ma anche a Bergamo vigeva la norma che solo le lotte operaie (sindacali e politiche) potessero spostare a sinistra altri ceti sociali e creare contraddizioni nell’area cattolica cui faceva riferimento il colosso democristiano. C’è da aggiungere, però, che molto spesso l’azione del partito rischiava di scadere in una sorta di debole “fabbrichiamo”: il Pci diventava puro e semplice supporto della lotta sindacale.Ma proprio nei primi anni Sessanta, che sono quelli del boom economico e di una prima modernizzazione dell’Italia, si avvia un’incrinatura del fronte cattolico tradizionale. Il Pci, cui non basta più conservare la propria forza in fabbrica, cerca di dotarsi di una presenza più generalizzata nella società. E’ in quel momento che cerchiamo di avere un progetto alternativo sulla città, a iniziare dalla lotta sul piano urbanistico, e mettiamo a punto un progetto di collegamento fra il futuro della città e le valli circostanti. E’ proprio sulla nuova dimensione progettuale che deve assumere l’azione politica che si apre un confronto intrecciato sull’identità comunista e sull’identità cattolica in una città così peculiare come Bergamo. Ricordo, per esempio, la nascita del Comitato per la libertà del Vietnam formato dai segretari di tutti i partiti e con l’adesione di undici sacerdoti, tra cui Padre Turoldo.Ma l’episodio clou che segna nel profondo il percorso di rinnovamento del Pci a Bergamo è il discorso dedicato alla questione cattolica che Togliatti tiene in città il 20 marzo del 1963 a conclusione di una conferenza programmatica del partito. Quel discorso, intitolato successivamente I destini dell’uomo sulle pagine del settimanale Rinascita, costituisce un evento per Bergamo. Io, che ero ancora segretario della Federazione, ero riuscito a ottenere da Togliatti l’impegno a pronunciare un intervento di spessore nonostante ci trovassimo nel corso di una impegnativa campagna elettorale. Nel 1963 eravamo nel pieno del pontificato innovatore di Giovanni XXIII (Papa Roncalli, occorre ricordarlo, aveva le sue radici proprio nel cattolicesimo popolare bergamasco) e si era già aperto il Concilio Vaticano II che innoverà la dottrina della Chiesa. Togliatti colloca il suo discorso proprio in quello scenario che scuote il conservatorismo cattolico. Sul piano politico, inoltre, occorre tenere a mente che si era concluso il centrismo dei governii Scelba e Tambroni e che nel 1963 – anno che segnerà un positivo avanzamento del Pci nelle elezioni politiche – il quadro era segnato dal primo governo di centrosinistra guidato da Amintore Fanfani.Togliatti pronuncia parole destinate a pesare a livello nazionale e nella concreta situazione di Bergamo: individua nuove opportunità per l’incontro tra cattolici e comunisti (non solo il Concilio, ma l’esisto del XX Congresso del Pcus: quello della “destalinizzazione” avviata da Nikita Krusciov) accanto alla necessità di un impegno comune per la pace nell’epoca degli armamenti atomici. Per salvare una comune civiltà fatta di cultura e valori – dirà Togliatti – occorre l’azione congiunta di comunisti e cattolici. Il leader del Pci batte il tasto sul fatto che lo sviluppo neocapitalistico finisce per avvilire le potenzialità dell’uomo, che resta pur sempre il soggetto centrale dell’iniziativa sia dei comunisti sia dei cattolici. Dopo la morte di Togliatti, nel Pci si apre un confronto-scontro tra due opinioni: quella di Giorgio Amendola che propone un “partito unico” tra comunisti e socialisti mentre si svolge l’esperienza dei governi di centrosinistra e c’è stata la scissione del Psiup; quella di Pietro Ingrao che dà priorità al progetto e al valore innovativo delle riforme in un contesto di trasformazione del capitalismo italiano sottolineando il necessario rinnovamento del partito. Già in un Comitato centrale che aveva discusso la proposta di Amendola si ebbe il voto di dissenso di alcuni compagni (Luigi Pintor, Aniello Coppola, Ninetta Zandegiacomi, Aldo Natoli, il mio, mentre ricordo che Rossana Rossanda era assente per altri impegni dalla riunione). Quella divisione si riflette sulla vita della Federazione di Bergamo. Quando furono presentate le Tesi per l’XI Congresso, toccò a me illustrarle. Da un certo punto in poi precisai che parlavo a titolo personale perché dovevo spiegare il mio “no” nel Comitato centrale e soprattutto le mie riserve sulle Tesi.Quando si svolse il Congresso provinciale di Bergamo nei primi giorni di gennaio del 1966, toccò di nuovo a me – segretario della Federazione – fare la relazione introduttiva che ribadiva alcuni distinguo di linea e riecheggiava molte delle posizioni espresse in varie sedi da Pietro Ingrao. Quel congresso era seguito a nome del gruppo dirigente nazionale da Rinaldo Scheda, segretario aggiunto della Cgil. Fu proprio lui a tentare di smussare alcuni passaggi della mozione conclusiva del Congresso che esprimeva forti riserve sul documento di Tesi. Nel corso della riunione della Commissione politica che lavorava alla stesura della risoluzione finale, ci annunciò che avrebbe parlato nel Congresso contro le nostre posizioni a nome della Direzione nazionale (nel clima di quegli anni, l’annuncio equivaleva a una minaccia perché era fortissimo il senso di disciplina verso Botteghe Oscure). Scheda mantenne la parola, dopo che si rivelarono vani i suoi tentativi di cambiare la mozione.Ho riletto il numero di gennaio del 1966 de Il lavoratore bergamasco, che era il periodico della Federazione bergamasca del Pci. La mozione di quel Congresso provinciale fu approvata con due sole astensioni. In essa era ribadita una forte critica alla politica del centrosinistra, accanto alla necessità di rilanciare l’iniziativa operaia su un orizzonte di riforme in grado di disegnare nuovi scenari economici e sociali. In un passo di quel documento si legge: “Una nuova maggioranza non si realizza come confluenza di forze deluse dal centrosinistra intorno a un programma minimo. Può essere il frutto solo di un profondo processo di elaborazione e di azione politica, economica e sociale”. Ponevamo, infine, il tema della “democrazia interna” al partito: partecipazione degli iscritti alle scelte, loro pieno coinvolgimento anche quando – come nel caso del Comitato centrale che ho citato in precedenza – si verificavano dissensi nel gruppo dirigente nazionale. Si tratta di questioni che ritorneranno nel dibattito della sinistra comunista a cavallo del 1968 studentesco e del 1969 operaio, nel XII Congresso nazionale di Bologna del febbraio 1969 in cui la sinistra interna sarà emarginata dalla Direzione del partito, nel confronto che diede vita prima al mensile il manifesto e poi, quando arrivò la radiazione del suo gruppo promotore dal Pci, all’esperienza dell’omonimo gruppo politico.Voglio infine ricordare che dopo l’esito dell’XI Congresso a Bergamo fui escluso dal Comitato centrale: a quei tempi dissentire significava andare incontro a una reazione durissima da parte dell’apparato. Ci fu la protesta della mia Federazione e lo scontro tornò rovente, quando si dovettero decidere le candidature alla Camera nelle elezioni del 1968: l’intero Comitato federale sostenne il mio nome, mentre c’erano pressioni da Roma e da Milano affinché fossero penalizzate le nostre posizioni politiche. Ricordo questi episodi che mi riguardano solo perché testimoniano l’orientamento largamente maggioritario su cui si muoveva l’intera Federazione.Fu quindi naturale che proprio la Federazione di Bergamo, che aveva avuto quel ruolo nei dibattiti degli anni precedenti, fosse in prima linea nel novembre del 1969 contro le scelte del Comitato centrale che decise di radiare i promotori del manifesto mensile. Nel corso degli anni Sessanta avevamo maturato in una città di frontiera per i comunisti il bisogno di un profondo rinnovamento politico, culturale e organizzativo del Pci. A quel rinnovamento eravamo più sensibili proprio perché esposti all’egemonia tradizionale della Dc di cui scorgevamo le prime crisi. Il 3 novembre del 1969 venne approvato un ordine del giorno presentato da me nella riunione congiunta del Comitato federale e della Commissione di controllo di Bergamo che discuteva del “caso” del manifesto: con 24 voti a favore, 13 contro e 6 astenuti veniva bocciata la scelta di definire “attività frazionistica” la nascita del mensile. Ma qui inizia un’altra storia. (da il manifesto19 giugno 1999)

martedì, gennaio 04, 2005

. MEMORIA. LIDIA MENAPACE RICORDA ELISEO MILANI

Era un uomo molto affascinante coraggioso determinato: il coraggio lo ha
dimostrato anche negli ultimi anni di vita quando sapeva e diceva di essere
vivo per scommessa, eppure non cedeva al male, con una capacita' molto
elevata di resistere e persino di riderci su.
Tra le persone che dettero vita al "manifesto" come impresa politica e come
giornale, con altri della federazione del Pci di Bergamo e con i compagni di
Napoli Eliseo era parte di uno dei pochi nuclei operai e di organizzazione
che si staccarono o furono espulsi dal Pci. Segno di un grande coraggio
esistenziale e politico, dato che - piu' di altri - ebbe la capacita' di
dare giudizi distaccati e "!aici" sul grande partito-chiesa del quale aveva
fatto parte.
Se il resto del gruppo storico non forzo' le uscite dal Pci, che potevano
essere numerose e significative, non lo si dovette certo alla pressione di
compagni come Eliseo e altri di origine operaia, che comunque si buttarono
con grande convinzione nel movimento del Sessantotto, soprattutto a
proposito di nuova analisi della composizione di classe, delle nuove figure
operaie, della organizzazione consigliare in fabbrica, delle 150 ore e
della organizzazione sociale in qualche modo diretta dalle fabbriche, che
nel Sessantotto era ancora possibile, se il movimento non fosse stato
arrestato, quando la organizzazione del territorio stava passando oltre i
consigli di fabbrica, per avviare i consigli di zona.
Non voglio comunque usare Eliseo per fare una ricostruzione critica degli
errori o manchevolezze del "manifesto". Penso che mi strizzerebbe sorridendo
gli occhi e mi direbbe: "Ma perche' non parli come mangi e non dici le cose
che conosci direttamente, eh Lidia!".
*
Avevo verso di lui un affetto sincero e profondo, lo ammiravo. Anche la sua
raffinatezza del vestire, la raggiunta ricchezza e precisione del parlare e
insomma la sua caratteristica di intellettuale operaio erano dimostrazione
vivente della grandissima opera di alfabetizzazione politica (ma ben piu':
era una cultura universitaria!) che il Pci era riuscito a diffondere nella
classe operaia (e tra le donne) con le scuole di partito, con una opera
molto frequente precisa programmata di costruzione di soggettivita'.
Ellseo era uno dei frutti piu' significativi di quel lavoro e anche dei piu'
schietti, dato che non ne ricavo' mai un atteggiamento di tipo "religioso"
verso il partito.
Questo gli va riconosciuto perche' non era frequente nemmeno tra gli altri
"grandi" del primo gruppo del "manifesto".
*
Voglio concludere ricordando che una estate - credo nel '73 o '74 - fu
nostro ospite per un po' di giorni in val di Non a Cles, dove usavamo
passare le vacanze al paese natio di mio marito.
Percorse una valle tutta agricola allora, interamente agricola, a parte "La
frabicia", la fabbrica cosi' unica da essere detta tale per antonomasia, ed
era una fabbrica di cemento che c'e' ancora. Allora la valle era tutta un
frutteto di varie qualita' e non una noiosa monocultura come oggi. Le
stagioni erano scandite dalla fioritura dei meli, e quando era molto forte
si diceva a proposito di una zona detta "Franza" (Francia): "e' nevega' en
Franza", tanto era soffice e compatto il manto di fiori bianchi.
Eliseo ascoltava le nostre chiacchiere di vallata e osservava con curiosita'
il fitto tessuto agricolo e la presenza contadina che nella Bergamasca non
esisteva piu', dato che Bergamo e Brescia erano province di antica e diffusa
industrializzazione, e discuteva sul perche' zone di cosi' profonda radice
cattolica si differenziassero tanto nelle scelte politiche e di voto. Era la
struttura produttiva che consentiva nella Bergamasca una significativa
presenza comunista e un fervido dibattito tra i cattolici e nella val di
Non solo di democristiani.
*
A un certo punto ci siamo un po' persi di vista e ci incontravamo
occasionalmente nelle stazioni (tra i luoghi che frequento di piu') e dove
anche Eliseo si poteva trovare quando si muoveva tra Roma (dove si era alla
fine trasferito) e Bologna dove aveva sua figlia.
Credo che anche lui mi volesse bene in quel suo modo schivo e un po'
rustico, da bergamasco. Ma del resto io pure sono montanara.

Eliseo Milani: un oltre il giardino

ARTICOLO21

Eliseo Milani: un oltre il giardino
di Michele Mezza


Eliseo Milani, morto la notte del 27 dicembre, al Policlinico di Roma, è una figura, non poche a dir la verita, ma neanche tante quante la retorica vuole accreditare, che nobilita la seconda fila della storia.Lui era un uomo che, in questo con pochissimi altri, scelse con piena consapevolezza, di stare un passo indietro, per fare in modo che tutti potessimo farne molti in avanti. Chi ne scrive ebbe la ventura di conoscerlo nell’autunno del 1970, in una improvvisata sede dell’allora costituendo movimento del Manifesto a Milano.

Eliseo era già parlamentare, oltre che leader della federazione del PCI di Bergamo. L’unica federazione che approvò a maggioranza le tesi per il comunismo del manifesto.Rispetto alla varia umanità che si raccoglieva attorno a quel gruppo di fuoriusciti del PCI-studenti e qualche quadro sindacale di base-era una figura carismatica. Io lo conobbi mentre contava una risma di manifesti da affiggere a Milano per annunciare la nascita del quotidiano Il manifesto.E quel lavoro- contare, sistemare, organizzare,distribuire,potenziare-Eliseo lo avrebbe sempre continuato a fare, per il semplice motivo, come spiegava lui stesso che “ e’ necessario, indispensabile,ed e’ meglio che lo faccia io altrimenti tocca rifarlo”.Ricordandone la figura al funerale Lucio Magri, il compagno di una vita di sfide politiche all’ortodossia,ha spiegato come Eliseo, sotto la ruvida scorza da funzionario di partito, era diventato anche un fine intellettuale.Giusto.Ma forse limitativo.In quella mareggiata ideologica che furono gli anni ’70.Mareggiata che non puo’ comunque, neanche metaforicamente, essere paragonata al micidiale tsunami di questi giorni, perche’ insieme ad indiscutibili errori e crimini, ha prodotto anche straordinarie e vitalissimi sussulti liberatori. In quel gorgo , dicevo, di intellettuali se ne incontrarono molti, persino troppi.

Lucidissimi analisti e affabulatori formidabili.Quelli che mancarono furono i i cosiddetti “culi di pietra” o, meglio ancora, i veri dirigenti di uomini e donne.Gente affidabile , di buon senso e naso fino, a cui affidarti in quelle decisioni che , quando preme la folla, si prendono in pochi minuti, talvolta secondi, ma che ti possono segnare per tutta una vita.Eliseo fu uno di questi.Forse il piu’ pronto e capace a misurare la temperie del momento .Rischi ed potenzialita’ . Vacuita’ e sostanza .C’era poco da fare, lui capiva prima. E usava questa sua sensibilita’ non come una clava competitiva, ma come una risorsa di tutti.Era straordinario il sorriso che masticava con la sua espressione da Gene Hackman in una riunione all’indomani di un evento di cui aveva preannunciato l’esito. “ Ci vuole naso” diceva spietatamente all’indirizzo di qualche compagno di maggiore carisma intellettuale che si era esposto un po troppo.E lo diceva riferendosi al suo prominente profilo greco.

Il fiuto di Eliseo veniva da lontano.Da un paesino allo sbocco del Brembo, vicino Bergamo, dove nacque in una famiglia con nove altri fratelli.Uno scenario che solo le mezze luci di Ermanno Olmi possono rendere decifrabile.
Giovanissimo, a 11 anni, va in fabbrica alla Dalmine. L’universita’ del lavoro in quei tempi.Dapprima alla scuola di apprendista e poi in produzione.Siamo nella zona piu’ bianca e chiusa d’Italia. Dove la Breccia di Porta Pia era considerata ancora un abuso edilizio da riparare.Diventa comunista diventando operaio.Prima militante della CGIL.In una fabbrica di 5000 operai che vede scioperare un solo lavoratore in occasione di una protesta proclamata dal sindacato rosso.E indovinate chi fosse quel giapponese nella foresta? Poi nel partito,dove in breve diventa segretario della cellula, responsabile della commissione fab briche provinciale ed infine segretario della federazione.Eliseo e gia’ cresciuto parecchio nel frattempo.E comincia a porsi un tema che diventera’ storico a sinistra: il rapporto con i cattolici.Siamo non solo nella provincia piu’ bianca d’italia, ma anche nella terra di Papa Roncalli, dove nasce la Pacem in Terris, dove il cristianesimo sociale lancia una sfida competitiva al movimento operaio comunista.

Eliseo risponde a modo suo. Lavora su gli uomini.Apre un varco nella sinistra cattolica, e diventa una sponda per il filone che guarda al PCI, da Chiarante allo stesso Magri.Ma non basta; i cattolici bisogna riconoscerli non solo quando vengono con noi, diceva.E continua a lavorare: Cisl, Acli,scout.finche’ alla vigilia delle elezioni del 1963, convince Togliatti ad andare a Bergamo.Il leader comunista non c’era mai stato.Ma non per un comizio. Eliseo vuole aprire una finestra vera. Organizza una conferenza dal tema: comunisti e cattolici per un mondo nuovo. Roba che oggi farebbe solo sbuffare di noia qualcuno dei liberisti di complemento che gestiscono la cattedra di pensieri nuovi per l’umanita’. Allora eravamo in piena guerra fredda.La crisi di Cuba faceva tremare il pianeta.E lo stesso PCI avvertiva i primi sintomi di febbre da modernizzazione.Con un centro sinistra allora ancora ambizioso e un miracolo economico che spingeva il paese verso il consumo di massa.Bisognava andare oltre, guardare oltre.Oltre il proprio giardino, anche per il partito comunista piu’ in salute dell’occidente.L’evento ebbe grande eco.

Togliatti tocco’ uno dei vertici della sua elaborazione piu’ originale e feconda.La pace era il terreno dove potersi incontrare fra comunisti e cattolici, senza abiure ne scomuniche.Ma il segretario del PCI fece intravedere nuovi scenari, dovee sono in gioco i valori primi-la pace, la vita, la convivenza, lo sviluppo, la giustizia- ed allora tutta la politica deve cambiare e ognuno deve dare quello che ha, aggregandosi per soluzioni e non per punti di partenza. Una svolta che diede grandi frutti.Eliseo ne fu l’architetto.In seconda fila.
E ancora dopo, quando la sinistra comunista diede battaglia nel partito.Eliseo li fu in prima fila.Perche’ li si doveva rischiare .Lui segretario di federazione, dipendente del partito,non esito’ a schierarsi con l’opposizione. Ma come sempre lo fece insieme ai compagni, mai aver ragione da soli.Nel corso del bruciante XI congresso, Bergamo fu l’unica federazione d’Italia che respinse il documento della direzione nazionale. E a quel tempo il dissenso, tanto piu’ se di massa, non era considerato un utile contributo.Da li’ inizio’ poi l’avventura del manifesto.Con Eliseo che trascino’ sulle orme degli espulsi la stragrande maggioranza dei compagni Bergamaschi.
Mille gli aneddoti di quei formidabili anni 70. Dove Eliseo appariva ogni tanto, masticando un mezzo sorriso, per dire : “Ci vuole Naso, dillo a quello li’’. Prima l’impegno per inventare il quotidiano. Un miracolo che solo in quel tempo si poteva concepire.Un miracolo bergamasco.Eliseo infatti fu il timone. E soprattutto impegno nell’impresa i piu’ soli compagni esperti di amministrazione che resero il sogno realta’.Poi ricordo la discussione per la presentazione elettorale nel 72.Tutti infoiati.Compreso chi scrive. In piazza siamo tanti, vinceremo.E lui , pacatamente , a ricordarci che i voti bisogna contarli nelle urne, non nelle manifestazioni .E ancora i mille giri di valzer con i gruppi.Prima Potere Operaio.Ai loro dirigenti Eliseo, per far inten dere cosa ne pensasse, si ostinava a dare del lei.

E poi Psiup, Avanguardia Operaia, Movimento Studentesco.Ecc.ecc.Lui sempre in seconda fila.Pronto a dare una mano.Soprattutto ad offrire una bussola a chi sbandava. Non pochi uscirono illesi da frangenti scottanti grazie al suo intervento.
Ma Eliseo aveva naso davvero. Non a caso negli anni ’80 a differenza di molti a sinistra, comprese subito la strategicita’ della questione comunicazione. “E quella la nuova fabbrica” scrisse nel 1984.Da parlamentare si impegno’ nella commissione di controllo sulla Rai. Esprimendo sempre-sarebbe interessante rileggerne gli interventi, e Articolo 21 potrebbe acquisirli nel suo archivio per metterli poi a disposizione-l’esigen za di salvaguardare l’autonomia e la sovranita’ del servizio pubblico, insieme all’ambizione di avere una rai piu’ avanti, piu’ moderna, piu’ competitiva per il sistema paese.
Come al solito vedo che mi sono fatto prendere la mano, e ho dilagato sul Milani politico.Eliseo era ben altro.

Era un uomo affamato di tenerezza.Quella tenerezza che non ricordava di aver avuto nelle camerate con dieci brande.Lo mostrava con i suoi rapporti d’amore. Mai banali. Sempre carichi di un cerimoniale di corteggiamento a cui non sapeva rinunciare. Nemmeno quando era manifestamente superfluo.Oppure nei rapporti con i bambini, che non aveva potuto maturare con l’unica figlia , da cui si era separato per le burrasche della vita da militante.Conservo ancora un filmato di Eliseo che culla mia figlia appena nata in riva al mare. Nessuno riconoscerebbe il brusco texano del Brembo che intimidiva i compagni del Manifesto.Con Lui io ho perso qualcosa di piu’ di un amico.Ma non mi arrogo questo dolore in esclusiva. Con me anche Aldo, Sandro, Guido,Maurizio,e tutti quei compagni che giovani 30 anni fa oggi si scoprono incanutiti e piu’ soli. Con L’unico, sicuro, privilegio, di aver avuto per 30 anni uno sguardo che dalla seconda fila li seguiva. Grazie Eliseo.

Eliseo Milani, il compagno e l'amico

APRILEONLINE


Eliseo Milani, il compagno e l'amico

di Aldo Garzia

Eliseo Milani, tra i fondatori del "manifesto", deputato e senatore
per più legislature, è morto nella notte
del 27 dicembre.
Questa volta non ce l'ha fatta. Eravamo abituati ai suoi ricoveri periodici a cui reagiva vivendo come un cronometro e dandosi un inflessibile stile di vita. Ci scherzavamo su, parlando ormai di guiness dei primati.
Lo abbiamo fatto anche il 23 dicembre, quando
è passato dalla redazione di "aprile"
per scambiarci gli auguri di rito.
L'amicizia con alcuni di noi era rimasta forte, nonostante il suo appartarsi con discrezione dietro le quinte della politica della sinistra di cui però seguiva ogni batter di ciglia.
Bisognerà tornare a parlare con calma di Eliseo, come meritano la sua biografia politica e la sua umanità. Bisogna che l'emozione si attenui.
Intanto, l'appuntamento è per giovedì 30 dicembre al Policlinico di Roma, dalle 11 in poi, per l'ultimo saluto.
Ciao Eliseo, vecchio bergamasco dalla scorza dura. Il 2004 non poteva finire nel modo peggiore.

ROMA: MORTE ELISEO MILANI - VELTRONI, SINISTRA PERDE PUNTO DI RIFERIMENTO

ROMA: MORTE ELISEO MILANI - VELTRONI, SINISTRA PERDE PUNTO DI RIFERIMENTO

Roma, 28 dic. - (Adnkronos) - ''Con Eliseo Milani se ne e' andato un uomo appassionato e colto, un politico che ha dedicato gran parte della propria vita alla militanza e al confronto sulle sorti della sinistra italiana''. Lo afferma il sindaco di Roma, Walter Veltroni appresa la notizia della scomparsa di Eliseo Milani. ''Dalla fondazione del Manifesto e poi del Pdup alla lunga esperienza parlamentare, conclusa come Senatore della Sinistra Indipendente, alla partecipazione alla Commissione Moro al suo impegno con il Centro per la Riforma dello Stato, Eliseo Milani - conclude Veltroni - e' stato negli anni un punto di riferimento per una parte importante della sinistra''.
(Gma/Rs/Adnkronos)

La scomparsa di Eliseo Milani



La scomparsa di Eliseo Milani

ci lascia una profonda tristezza. Lo ricordiamo come una persona che ci è stata cara, dirigente del Pci negli anni 60,


La scomparsa di
Eliseo Milani
ci lascia una profonda tristezza. Lo ricordiamo come una persona che ci è stata cara, dirigente del Pci negli anni 60, originale come originale è stato il contributo delle compagne e dei compagni cui si è legato in un sodalizio che è durato tutta la vita: dal Manifesto al Pdup fino all'impegno contro lo scioglimento del Pci e per le ragioni di una sinistra comunista da far vivere per poter ripensare il futuro.
Le sofferenze della malattia di questi ultimi anni e la lontananza fisica non hanno indebolito i sentimenti profondi di stima, rispetto e affetto verso una figura di militante sincero, a volte persino aspro, per il quale la politica è stata la durevole passione di una vita.

A lui va il saluto riconoscente nostro e di tutto il Partito della Rifondazione Comunista.

Fausto Bertinotti

Le compagne e i compagni
della segreteria e della direzione nazionale
esprimono il proprio cordoglio
per la scomparsa di
Eliseo Milani
esponente di spicco della sinistra comunista italiana

Se ne è andato un uomo appassionato e colto, un politico che ha dedicato gran parte della propria vita alla militanza e al confronto sulle sorti della sinistra italiana. Dalla fondazione del Manifesto e poi del Pdup alla lunga esperienza parlamentare, conclusa come Senatore della Sinistra Indipendente, alla partecipazione alla Commissione Moro al suo impegno con il Centro per la Riforma dello Stato
Eliseo Milani
è stato negli anni un punto di riferimento per una parte importante della sinistra
Walter Veltroni

Da te ho imparato molto della passione politica e tutto ciò resterà con me. Un ultimo caro saluto. Ciao
Eliseo
Roberto Musacchio

Eliseo Milani, in tuo nome…...



Eliseo Milani,
in tuo nome…


Caro Sandro, non ci vediamo da tanti anni e non ci vedremo neppure al funerale di Eliseo Milani, perché ormai mi muovo a fatica. Ma il dolore che provo al vedere spegnersi i compagni della vecchia stagione, è nulla al dolore di constatare che i partiti e le persone nei quali avevamo riposto una novella fiducia per uscire da questo indegno pantano dove stiamo affogando, altro pensano che non a far vivere e far vincere le nostre idee, gli ideali che hanno liberato l'Italia, costruito la Repubblica, instaurato la democrazia. Tanti gli scontenti intorno a me, in una terra dove pure la sinistra era ed è forte. Ma sembra che se ne sia dimenticata e non voglia fare nulla di positivo.
Lucio Morandini, via e-mail

Valentino Parlato, nel suo ricordo di Eliseo Milani sul "manifesto", ha immaginato che oggi, se fosse ancora con noi, Eliseo direbbe, di fronte al senso di amarezza, se non di impotenza, che talvolta ci coglie davanti ai balbettamenti di certa sinistra: «Va bene, ma senza esagerare. cerchiamo di fare qualcosa di utile in questo momento di grande confusione». Eliseo, che pure nell'isolamento della lunga malattia non aveva abbandonato la sua passione politica, è rimasto sino all'ultimo un uomo concreto, non dimentico dell'"obbligo" di fare. Vedi, caro Lucio, io non riesco ad aggiungere quasi altro alle parole che l'intellettuale Parlato ha saputo cogliere sulla bocca dell'operaio Milani. Oggi, mentre saremo a rendergli l'estremo saluto, io anche a tuo nome, insieme a tanti altri, donne uomini, compagni di diverse generazioni, penserò a te, a tutti noi, come a schegge staccatesi da un unico albero, testimonianza della tormentata storia della sinistra, delle sinistre anzi che non riescono a fare insieme "qualcosa di utile" per dare concretezza alle nostre pur giuste idee.

Eppure, come tu mi scrivi, questo è il nostro compito ed è questo che dalla sinistra si attendono i vecchi operai che, come quelli della Dalmine, hanno scoperto negli Anni Cinquanta, insieme all'operaio undicenne Milani, la lotta di classe; quelli, ancora, che come me e te hanno fatto in tempo a conoscere la lotta partigiana, sotto la guida di comandanti giovani ma sicuri; quello che ci chiedono i ragazzi d'oggi - qualcuno preso dallo studio o dalla militanza politica, altri dispersi fra i mille luoghi del lavoro parcellizzato, precario, solitario, altri ancora che fuggono i pensieri e gli impegni per mancanza di chiarezza: «Fate qualcosa, chiamateci a partecipare pur di uscire da questa confusione che tutto offusca». Negli scorsi giorni, il direttore di "Repubblica", Ezio Mauro, ha scritto: «Il centro sinistra rinuncia alla vera battaglia decisiva, la battaglia delle idee che danno anima alla politica». Forse è vero, ma proprio per questo salutando Eliseo cerchiamo di guardarci negli occhi, noi che siamo vivi, i giovani e i meno giovani, e promettiamo a noi stessi che faremo tutto quello che ci è possibile, che non è poco, perché le nostre idee per un mondo migliore diano sapore alla politica e senso alla vita.

Alessandro Curzi
alessandro. curzi@liberazione. it



Eliseo Milani, una storia comunista

Eliseo Milani, una storia comunista

Per come era, per le scelte difficili da lui compiute, per dove si è trovato a compierle, per il loro risultato concreto, la sua vita rappresenta un pezzo sconosciuto della storia dei comunisti italiani. Dal Pci al Manifesto, il percorso ricco, tenace e tormentato di uno dei fondatori di questo giornale. Un'esperienza, la sua, che anche ora offre molto da imparare


LUCIO MAGRI

Eliseo Milani è stato per me, in modo diverso ma non meno profondo di Michelangelo Notarianni, l'amico e il compagno di una vita. Tocca perciò a me scriverne nel giorno della sua morte, tanto più dolorosa e inattesa dopo che molti anni di malanni tanto gravi ci avevano persuasi non sarebbe mai venuta. La malattia l'aveva condannato a troppa solitudine. Che genera, almeno in me, un pesante senso di colpa che darebbe comunque una sfumatura di ipocrisia a qualsiasi elogio funebre. Del resto mi manca la penna raffinata e l'acutezza psicologica per tratteggiare una personalità così sensibile sotto la sua scorza così ruvida. Sono del resto troppo ostico per esprimere i miei sentimenti nei momenti di commozione più intima. Non è un male, forse: perché a un elogio funebre sfuggirebbe la cosa più importante. Il fatto cioè che Eliseo Milani, per come era, per le scelte difficili compiute, per dove si è trovato a compierle, per il loro risultato concreto, rappresenta un pezzo sconosciuto della storia dei comunisti italiani. La sua vita reale accuratamente raccontata dall'origine, offrirebbe ai futuri storici materiali forse più ricchi e più equanimi che non la lettura di tanti verbali della direzione del Pci volutamente elusivi, e di tanti dibattiti di comitati centrali sempre espressi in cifra e dunque da decifrare; e dare invece un'idea di ciò che il Pci è realmente stato, e anche di ciò che forse poteva diventare. E tanto più per sovvertire un'immagine adulterata oggi prevalsa, quella di un partito burocratizzato e fideistico, di una storia di ristretti gruppi dirigenti, e per di più di una storia «dei vincitori che si sono alla fine riconosciuti sconfitti e pentiti». Ma per raccontare quella vita occorrerebbero ben più che poche ore sovrastate dalle emozioni, e ben più che poche cartelle. Mi limiterò quindi, per giustificare questa affermazione e indicare alcuni punti per un lavoro di ricerca.

Una vita nel «partito nuovo»

La vita di Milani testimonia anzitutto nella sua concretezza come il partito nuovo di Togliatti non sia rimasto una intuizione di breve stagione subito soffocata dalla guerra fredda e dalla ortodossia neocominternista, e sopravvissuta solo come apertura agli intellettuali e ai ceti medi, come accorta gestione delle alleanze politiche. Il nocciolo di quell'ipotesi era trasformare i proletari in vera classe dirigente nazionale.

Eliseo era troppo giovane per partecipare alla guerra partigiana, la sua è la generazione politica degli anni Cinquanta.

Era di famiglia contadina, in una provincia, Bergamo, cattolica e conservatrice, dove i comunisti erano e rimasero sparuta minoranza. Andò a lavorare già a 11 anni e nei corsi aziendali della Dalmine prese il diploma di scuola media, e come tornitore e rimase a lavorare studiando la sera per diventare perito tecnico. E' dalla concreta vita operaia che arrivò al comunismo. Ricordava sempre, con giusto orgoglio, di uno sciopero generale nazionale che fece da solo, notificandolo all'azienda, perché non sembrasse un'assenza occasionale.

Furono anche queste testimonianze pratiche, comunque, che lo aiutarono a far crescere politicamente un gruppo di operai che cominciò a contare nella fabbrica, rompendo l'isolamento del Pci e superandone il settarismo. Proprio alla Dalmine, qualche anno dopo, si realizzò così la prima esperienza di una conferenza operaia comunista costruita sull'inchiesta, centrata sull'analisi delle innovazioni intervenute nell'organizzazione del lavoro, di cui Amendola, presente, colse il valore, sì da proporre di generalizzarla nella preparazione della conferenza operaia nazionale, in parallelo con la grande svolta avviata dalla Cgil dopo la sconfitta alla Fiat. Eliseo era stato nel frattempo chiamato al ruolo di funzionario di partito, e presto, a quello di segretario della federazione di Bergamo.

Funzionario: che brutta parola oggi, ma cosa era allora un funzionario, soprattutto in quella zona? Era uno che, rinunciando a un lavoro certo e ben avviato accettava di vivere con una retribuzione più bassa che spesso non arrivava mai e che si doveva alimentare con la sottoscrizione in sezioni disperse che si riunivano in piccole osterie; che dormiva su una branda in un angolo dell'ufficio: che passava le poche ore libere al caffè della Camera del lavoro, una specie di «centro sociale ante litteram».

Altro che casta burocratica. A diventare assessore e parlamentare allora non ci si pensava neppure: quella appariva quasi come una diminutio capitis, solo un riconoscimento finale di una vita bene spesa. In attesa di una rivoluzione prossima? Non scherziamo: il `48 era già alle spalle e a Bergamo sapevamo quanto lunga fosse la strada. Nel frattempo si lavorava oltre che a costruire lotte a formare quadri. Ed Eliseo visse come grande occasione la scuola delle Frattocchie.

Un indottrinamento? Anche qui, non scherziamo: a quei tempi gli insegnanti delle Frattocchie erano Cafagna, Caracciolo, Spinella e così via.

Il segretario del dialogo

Quale fu poi più avanti il Milani segretario? Un burocrate o un sacerdote operaista? L'esatto contrario. Oltre all'ininterrotta cura dei collettivi di fabbrica , quando, per la prima volta alla fine del volantinaggio ci trovammo di fronte intere grandi aziende da cui i lavoratori uscivano in massa per venire in piazza ( il grande salto del luglio `60 ) Eliseo permetteva lunghe, periodiche riunioni del comitato federale per studiare la storia d'Italia, curava con attenzione l' intervento in consiglio comunale dove un partito all'indice,e con il 9 per cento dei voti, ripetutamente riusciva a trascinare socialisti, ma anche socialdemocratici e liberali, sui grandi temi del piano regolatore, degli abusi edilizi perpetrati nel quadro delle nuove lottizzazioni patrocinate dal vescovo Bernareggi e da Carlo Pesenti. Infine, forse soprattutto, Eliseo avviò un coraggioso dialogo con i cattolici, non solo come alleati possibili, ma come comprimari, voluti e bene accetti. I dirigenti della gioventù cattolica bergamasca, grazie a quel dialogo, non solo si avvicinarono, ma diventarono parte integrante del vertice della federazione comunista. Non a caso fu Milani a promuovere l'assemblea in cui Togliatti pronunciò il famoso «discorso di Bergamo». Un discorso che dava all'alleanza con i cattolici una valenza strategica.

Del dissenso, dell'equilibrio, dell'energia

E' da questo intreccio di esperienze, di lotta e di maturazione culturale innovatrice, che nacquero nel Pci - certo non solo a Bergamo, ma un po' ovunque, per mille rivoli e con molti diversi approdi nel sindacato e nel partito - i primi embrioni di una minoranza non ufficializzata ma non irrilevante, che in seguito - quando fu trovato un riferimento nazionale, culturale e politico - prese il nome di ingraismo. Una sinistra non dogmatica e non settaria, che giocò, anche fuori dal Pci, la sua partita negli anni Sessanta e fu poi sconfitta e in parte repressa all'XI congresso del 1965. Ma che lasciò tra intellettuali e sindacalisti corpose sedimentazioni, e cercò di rilanciare la sfida di fronte al ben più maturo appuntamento del `68.

Quel lavoro precoce di Milani fu riconosciuto e gli valse l'ingresso nel Comitato centrale. Ma fu il solo segretario di federazione che all'XI Congresso non si allineò e ne venne subito escluso. Quando in due decisive occasioni, prima Lama e poi Scheda, vennero a presiedere il Congresso della federazione di Bergamo e chiesero ai compagni di scegliere tra la posizione del Comitato centrale e le critiche opposte da Eliseo, essi furono messi in minoranza. Milani era un dissidente, ma aveva un largo sostegno di base e questo fu il solo caso di dissidenza che resse anche alla radiazione del Manifesto nel `69. Milani si unì al nostro gruppo, e con lui i migliori quadri intellettuali e operai dell'organizzazione, assumendovi un ruolo dirigente.

Del ruolo che egli ebbe, del peso che conquistò in questa nuova esperienza non ho lo spazio ora di parlare come si dovrebbe. Ma vorrei che dicessero qualcosa altri compagni che pure hanno tutti gli elementi per farlo e aiuterebbero a correggere una sottovalutazione e un silenzio non innocente che più tardi si creò su di lui. Lo vorrei perché questo silenzio è connesso ad un punto delicato di quella nostra vicenda. Cioè ad una, in parte inconsapevole convinzione, secondo la quale trovandoci dopo la radiazione con idee certo anticipatorie ma molto controcorrente, con un'identità specifica, alla frontiera tra il Pci e i nuovi movimenti, ma senza una base precisa, sia stato un puro errore cercare di far vivere quella identità con una piccola organizzazione, un'autonoma elaborazione e un giornale quotidiano ad essa connesso. Onestamente credo che da quella scelta nacquero anche molti errori di analisi e di comportamento, ma più che mai sono convinto che fosse un rischio da correre e che abbia lasciato frutti positivi e ingiustamente lasciati disperdere.

Eliseo fu un pilastro di quel tentativo e lo sorresse nel modo migliore con la tenacia, l'equilibrio, l'energia che erano legati al suo passato. E lo restò finché fisicamente gliene restarono le forze. La stessa energia, il tratto genetico, con cui affrontò poi per più d'un decennio, una battaglia individuale ma ancor più eroica contro la malattia per conquistare ogni giorno un pezzo in più di vita, forse non più per cambiare il mondo ma per continuare a capirlo senza piegarsi, senza sentirlo estraneo, ma anzi restando attento e partecipe. Non credo che di fronte alla sua morte, si possa dire nulla di più grato e lusinghiero del riconoscere che quella vita non solo è stata spesa bene a suo tempo ma che anche ora offre molto da imparare.

Il lavoro di Eliseo

Il lavoro di Eliseo


Abbiamo imparato tante cose dall'intelligenza e dall'azione di Eliseo Milani. Nel momento doloroso in cui egli scompare invochiamo caldamente un lavoro collettivo per ricostruire il suo pensiero e la sua vicenda umana e trarne nuova forza nella grave lotta in atto per la pace nel mondo oggi violata, e per costruire nuove vie di liberazione del mondo del lavoro.
Pietro e Chiara Ingrao e Paolo Franco



Partecipo addolorato al lutto dei compagni del manifesto, di tutti gli amici di Roma e Bergamo dove l'ho conosciuto giovane dirigente del Pci, per la morte di Eliseo Milani protagonista di tante battaglie per il socialismo e la democrazia in Italia.
Luciano Barca



Ricordo con affetto Eliseo Milani, militante e dirigente comunista.
Nuccio Iovene



Con la morte di Eliseo perdiamo il protagonista di una sinistra seria, tenace e coerente. Ho avuto modo di condividere con lui momenti di lotta e militanza nel Pdup e poi in Parlamento a difendere spazi di democrazia che si andavano sempre più restringendo.

Un forte abbraccio a tutti voi del manifesto e in particolare a Rossanda, Magri, Castellina e Parlato.
Guido Pollice



Vorrei ricordare anch'io, attraverso queste poche righe, Eliseo Milani, un compagno serio, onesto, uomo d'altri tempi con il quale ho condiviso un pezzo importante del mio itinerario di vita assieme ad altre compagne e compagni, tutti indimenticabili. Ci sono pezzi di vita che, a volte, se ne vanno con certe persone ed Eliseo è fra questi: porta con sè un pezzo della nostra vita. Grazie.
Franco Astengo



Nel nostro non breve percorso di iniziativa politica e nello sforzo di ricerca e di riflessione che l'hanno accompagnato sin dai lontani anni Sessanta, Eliseo Milani è stato per noi elemento di riferimento, di confronto, di stimolo alla discussione.

Dopo la conclusione dell'esperienza difficile e appassionante del movimento politico de il manifesto, il rapporto con Eliseo Milani è continuato e, se possibile, si è ancora consolidato nel tempo, grazie alle occasioni d'incontro qui a Bergamo, ma soprattutto grazie al tenace filo sotterraneo della condivisione e dell'amicizia, che resiste alla lontananza e al susseguirsi delle vicende di vita. Perché Eliseo ha saputo essere per noi un compagno e un amico,due cose che nella realtà stanno raramente insieme, ma quando ciò si verifica, allora quel filo continua oltre la morte, nella vita quotidiana di chi rimane.
Giuliana Bertacchi e Angelo Bendotti



Apprendiamo con dolore la scomparsa di Eliseo Milani che abbiamo conosciuto negli anni della nostra giovinezza, allora, come militanti del Pdup-manifesto.Con lui abbiamo vissuto anni intensi e esperienze che ci è impossibile dimenticare.

Pur nella diversità delle nostre scelte partitiche successive, lo abbiamo ritrovato sempre come un compagno con cui si poteva discutere,fedele alla scelta di fondo di collocarsi dalla parte dei lavoratori, in una sinistra non pentita e attenta alle sue radici. Ci mancherà.
Domenico Jervolino e Giovanni Russo Spena



Sarà sempre nella nostra memoria e del nostrocuore il ricordo di Eliseo Milani.
Prc, federazione di Bergamo







Milani, l'addio a Roma

MANIFESTO 31 Dicembre 2004

Milani, l'addio a Roma

GALAPAGOS
Un cielo terso, una giornata luminosa e un sole caldo hanno reso meno triste l'addio a Eliseo. O meglio: l'arrivederci, perché come ha anticipato Lucio Magri entro febbraio alla figura di questa straordinaria figura di militante-dirigente politico sarà dedicato un convegno. Un'occasione che permetterà di ripercorrere almeno 50 anni di storia della sinistra, di idealità, di lacerazioni, ma soprattutto di passioni e di impegno politico. L'appuntamento era per le 11, ma almeno un' ora prima fuori della Camera ardente del Policlinico di Roma, erano già in molti ad attendere l'esposizione della salma per dare l'ultimo saluto a Eliseo. Volti tristi, volti di compagni, di «vecchi» compagni, alcuni dei quali arrivati da fuori Roma. In un angolo, vicino alla bara, la figlia Marina, il fratello Fabrizio (straordinaria somiglianza con Eliseo) e le sorelle Tina e Angela.

Ai piedi della bara tantissimi fiori e un cuscino di rose rosse della nostra redazione. A Eliseo i fiori piacevano: ogni volta che lo invitavo a cena a casa ne portava un mazzetto.

Tanti amici hanno salutato Eliseo. E fra la sorpresa generale verso le 12 a rendergli omaggio è comparso anche Mirko Tremaglia, ministro per gli italiani all'estero e fascista doc. Erano uniti dalla comune terra di nascita, ma anche da un rapporto che non credo fosse di amicizia, ma di stima e di rispetto sicuramente sì.

Tanta gente è venuta all'appuntamento. E moltissimi tra i presenti erano legati al manifesto, inteso sia come movimento politico e come quotidiano. E poi rappresentanze politiche di tutti gli schieramenti (tanti) della sinistra e di organizzazioni come Arci e Legambiente. Per Rifondazione erano presenti Bertinotti, Sandro Curzi, Russo Spena; tra i Ds Giuseppe Chiarante (fu Eliseo a iscriverlo con Magri al Pci) e Giovanni Berlinguer. Poi delegazioni della Fiom e del Comune di Roma.

E' stato un Lucio Magri molto commosso, compagno di tante lotte, a tenere l'orazione funebre. Magri ha dato una lettura della vita dell'uomo intrecciandola fortemente con il ruolo politico. Ha ripercorso gli inizi della sua militanza politica nella federazione del Pci di Bergamo, dove è stato segretario per 11 anni a partire dal `57. Il suo orgoglio operaio, la convinzione che la classe operaia fosse matura per farsi classe dirigente. Ha ricordato le sue battaglie per la democrazia nel partito. E poi l'estromissione del comitato centrale, ma l'elezione fortemente voluta a deputato. La battaglia al XII congresso del Pci nel `69, nel quale la Federazione di Bergamo chiese la riscrittura delle Tesi.

Poi la dolorosa «uscita» non voluta dal Pci. E sull'onda della rivista mensile, la nascita del manifesto e il suo impegno tenace nell'organizzazione del piccolo partito. Milani, bergamasco doc diventa romano e vive - lui così discreto - l'esperienza della «comune» di piazza del Grillo. Eliseo inizia a questo punto un diverso percorso politico: viene eletto di nuovo deputato e poi senatore sempre coerente con le sue idee politiche originarie. Infine la malattia. Grazie Eliseo.

Amico e compagno

Amico e compagno


La scomparsa di Eliseo Milani mi colpisce e mi addolora profondamente. Eliseo è uno dei primi dirigenti comunisti che ho conosciuto, agli inizi del mio impegno politico a Bergamo. Sin da allora ho imparato ad apprezzare la sua forte passione politica, la sua calda umanità, la sua non comune intelligenza.

Su queste doti si è costruita fra noi un'amicizia che non è mai venuta meno anche quando i percorsi politici si sono diversificati e che si è rafforzata quando ci siamo ritrovati sulle medesime posizioni. Abbiamo perso un amico e un compagno che non dimenticheremo mai.
Giuseppe Chiarante



Partecipo con profonda commozione al comune dolore per la scomparsa del compagno Eliseo Milani. A lui mi collegano momenti infiniti della battaglia che abbiamo sempre condotto, anche se a volte con posizioni diverse, nel vecchio Pci a Bergamo e in Lombardia, e poi in altre formazioni della sinistra, per la causa della libertà e della giustizia. Eliseo era un proletario, è stato un comunista autentico, la sua dedizione agli ideali del socialismo è e sarà sempre di esempio per quanti, giovani e adulti, uomini e donne, intendono contribuire alla costruzione di una nuova società libera dal dominio economico, politico e culturale del capitalismo.
Armando Cossutta



Con Eliseo Milani se ne va un pezzo importante del Crs, di cui è stato dirigente e collaboratore prezioso. La difficile scommessa dell'autonomia del Crs, attraverso la sua trasformazione in libera associazione di intellettuali e politici interessati alla questione istituzionale, ebbe in Eliseo uno dei più convinti sostenitori che, fino alla fine, non ha mancato uno dei nostri appuntamenti se non giustificandosi, negli ultimi mesi, per i gravi motivi di salute.

Ci mancheranno il suo affetto, la sua intelligenza, la sua caustica ironia.
Mario Tronti e Stefano Anastasia



Per tutti noi che abbiamo lavorato con lui nel manifesto, Eliseo è stato un esempio di coraggio, di concretezza operaia, di coerenza. Radicato nelle sue convinzioni, sapeva affermarle con determinazione e anche con lieve ironia.
Francesco De Vito



Con Eliseo se ne è andato un vecchio compagno, protagonista di una grande idea di rinnovamento della sinistra. Con noi ragazzi del manifesto era sempre un po' scontroso, simile in questo a tanti nostri padri, severi ma pronti a discutere. Eliseo c'era sempre. Insieme abbiamo condiviso bellissime battaglie, spinti anche dalla sua rassicurante presenza. Per motivi di salute ormai lo si vedeva di rado, ma quando passava in redazione era lo stesso Eliseo di sempre, lo sguardo dritto di chi non aveva perso la passione per la politica. Con lui un altro pezzo di noi che se ne va.
Norma Rangeri e Guglielmo Pepe



Anna Pizzo, Pierluigi Sullo e Marco Calabria, vecchi compagni del manifesto e di Eliseo, insieme a tutto il collettivo di Carta, si uniscono al dolore per la scomparsa di un compagno indimenticabile.




Salvezza e anche miracolo

dice l'etimo. Per me sei oracolo.

Reificare, parlare nell'arte del fare.


Tommaso Di Francesco

Eliseo Milani, rigore e passione

IL MANIFESTO
Eliseo Milani, rigore e passione
ALDO GARZIA
Del gruppo storico del Manifesto, Eliseo Milani era all'apparenza tra i più burberi. Il forte accento bergamasco e il modo diretto, a volte rude, di affrontare le questioni politiche lo rendevano all'inizio perfino antipatico. Poi è diventato il punto di riferimento di alcuni di noi più giovani, che con lui riuscivano a confidarsi ed erano ricambiati con attenzione e riguardo. Eravamo giovani da «allevare»: io, Sandro Medici, Loris Campetti, Pietro Barrera, Vincenzo Vita, Michele Mezza e tanti altri. Siamo venuti su, ognuno per strade diverse, con i suoi consigli e con la sua amicizia.Milani, quadro operaio cresciuto alla Dalmine, sapeva com'era faticoso tirar su un'organizzazione e mettere a rapporto generazioni diverse. Nel 1970, quando il gruppo del Manifesto muoveva i primi passi e non era ancora nato il manifesto quotidiano, a tirare le fila dell'organizzazione ci pensava proprio Milani dalle stanze di piazza del Grillo, sede della rivista mensile e foresteria. In quel periodo era deputato eletto nelle liste del Pci, l'unico del gruppo storico del Manifesto a essere stato per undici anni (a partire dal 1957) segretario di una Federazione comunista (per altro, una Federazione molto particolare come quella di Bergamo). Tutti i primi anni Settanta hanno avuto in Milani un perno fondamentale: prima lo scontro politico con alcuni gruppi «estremisti» a Roma che avevano aderito al Manifesto, poi la sfortunata presentazione alle elezioni politiche del 1972, poi la costruzione paziente e faticosa del Pdup, poi ancora la divisione tra giornale e partito. L'impegno parlamentare si era intanto spostato al Senato, dov'era diventato vicepresidente del Gruppo della sinistra indipendente presieduto da Claudio Napoleoni, dopo aver presieduto nel 1976 i deputati della nuova sinistra che per la prima volta erano entrati in parlamento.A un certo punto, all'inizio degli anni Novanta, il dirigente di ferro aveva iniziato a subire i colpi della malattia. Di ritorno da una vacanza a Cuba fatta insieme, aveva scoperto che qualcosa non andava in un polmone. Prima ancora aveva subito altre operazioni (lo ricordo nel 1975 in un Congresso del Pdup a Bologna muoversi appoggiato su due stampelle ma dirigere con polso fermo la commissione elettorale).Gli ultimi quindici anni, Milani li ha vissuti come un metronomo. Aveva spostato il rigore inflessibile nell'amministrazione della sua salute: poche passeggiate, stessi itinerari, rapide visite alla camera o al senato, sguardo fisso sul termometro messo sul davanzale per vedere se faceva troppo freddo o troppo caldo per uscire, dieta ferrea. Uniche distrazioni: le cene al ristorante e i poker con gli amici. Ogni tanto tornava in ospedale per un nuovo malessere e un nuovo intervento chirurgico. La tempra riusciva sempre a vincere sul male e ormai il refrain era quello di poter parlare delle tante operazioni subite «dal Milani» come se dovessero entrare nel Guinness dei primati.Eliseo, però, soffriva dell'essersi appartato dalla politica non per scelta ma per costrizione. Una volta era intervenuto in un'assemblea, non ce l'aveva fatta a stare zitto, ma poi nel pomeriggio era stato ricoverato in ospedale perché emozione e tensione gli avevano creato problemi di pressione. Dopo quell'episodio, restavano l'accanita lettura dei giornali e dei libri, le discussioni con gli amici e i compagni più vicini.C'erano delle cose precise di cui andava fiero Milani: essere ingraiano fin dal Congresso del Pci del 1966, aver organizzato nel 1963 a Bergamo una famosa conferenza con Palmiro Togliatti sui temi della pace e della guerra («il destino dell'uomo») quasi in contemporanea con l'Enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, aver iscritto Lucio Magri e Giuseppe Chiarante al Pci, aver vinto il Congresso di Federazione del Pci nel 1969 chiedendo la riscrittura delle Tesi nazionali. La vicenda successiva del Manifesto era la conseguenza naturale di quell'itinerario.Grazie al forte carattere e all'accettazione della malattia, Milani ha guadagnato almeno quindici anni di vita abituandosi alle privazioni della sua condizione. Eppure aveva sempre una battuta, una sferzata, un consiglio, un pensiero e un saluto per chi era restato nella trincea che lui aveva dovuto abbandonare. E' stato così anche lo scorso 23 dicembre, quando ci siamo visti per gli auguri di rito. Era un Milani ironico, attento alle vicende non esaltanti del centrosinistra, consapevole che un altro anno era passato e che lui lo aveva guadagnato. Mi piace ricordarlo con il suo sorriso e l'ultima battuta in bergamasco che diceva più o meno così: «Dai, vedrai che quello lì prima o poi lo rimandiamo ad Arcore».

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