domenica, aprile 10, 2005

Bergamo, quando nacque "Il Manifesto"

Bergamo, quando nacque "Il Manifesto"

Eliseo Milani
Una città punto di forza del gruppo del Manifesto è stata Bergamo. Qui la sinistra comunista ha potuto contare su adesioni e consenso fin dal 1965, anno preparatorio dell’XI Congresso del Pci che si sarebbe poi svolto a Roma nel gennaio del 1966. Perché proprio Bergamo, città tradizionalmente bianca e dalla forte presa elettorale della Dc?Prima di parlare della vicenda specifica della sinistra comunista, bisogna ricordare che all’inizio degli anni Cinquanta un gruppo di giovani intellettuali abbandonò la Dc chiedendo un’apertura a sinistra per il mondo cattolico: Lucio Magri, Giuseppe Chiarante e Carlo Leidi erano i battistrada. Tutti e tre entrarono in tappe diverse nel Pci nonostante qualcuno a Roma – per esempio Giancarlo Pajetta – avrebbe preferito che costituissero un’organizzazione della sinistra cattolica in grado di impensierire la Dc. Magri avrebbe diretto con Rossana Rossanda il manifesto mensile, Chiarante si sarebbe astenuto sulla nostra radiazione dal Pci, Leidi non si sarebbe mai stancato di occuparsi delle vicissitudini del manifesto quotidiano mettendo le sue doti di atipico notaio al servizio del giornale. Io stesso, che sono stato per undici anni segretario della Federazione comunista di Bergamo, ho fatto parte della pattuglia di deputati che nel 1969 aderirono al manifesto e furono radiati dal Pci (con me, c’erano Massimo Caprara, Luigi Pintor, Aldo Natoli e Liberato Bronzuto).L’esisto dell’XI Congresso del Pci a Bergamo – il primo nella storia di quel partito nel quale una federazione abbia votato a maggioranza un documento in contrasto con il gruppo dirigente nazionale – è l’approdo di un lungo e tormentato dibattito, ma anche di alcuni processi politici che proprio nel capoluogo lombardo si erano dispiegati in nodo originale. Bergamo, all’inizio degli anni Sessanta, era una città dove i comunisti restavano inchiodati al 7-10%. Nelle liste per le comunali i candidati erano quasi tutti operai, con l’eccezione di un medico e di uno o due impiegati. La Dc poteva godere della maggioranza assoluta dei consensi, mentre a noi toccava la rappresentanza della classe operaia delle fabbriche (Dalmine e Ilva in primo luogo). I 100 mila lavoratori del bergamasco erano presenti in due settori fondamentali: tessile-abbigliamento e meccanico-metallurgico. Il Pci, nel dopoguerra, si era soprattutto impegnato a radicare il partito in fabbrica. Il “partito nuovo” di Togliatti non era certo chiuso e autosufficiente nelle alleanze, ma anche a Bergamo vigeva la norma che solo le lotte operaie (sindacali e politiche) potessero spostare a sinistra altri ceti sociali e creare contraddizioni nell’area cattolica cui faceva riferimento il colosso democristiano. C’è da aggiungere, però, che molto spesso l’azione del partito rischiava di scadere in una sorta di debole “fabbrichiamo”: il Pci diventava puro e semplice supporto della lotta sindacale.Ma proprio nei primi anni Sessanta, che sono quelli del boom economico e di una prima modernizzazione dell’Italia, si avvia un’incrinatura del fronte cattolico tradizionale. Il Pci, cui non basta più conservare la propria forza in fabbrica, cerca di dotarsi di una presenza più generalizzata nella società. E’ in quel momento che cerchiamo di avere un progetto alternativo sulla città, a iniziare dalla lotta sul piano urbanistico, e mettiamo a punto un progetto di collegamento fra il futuro della città e le valli circostanti. E’ proprio sulla nuova dimensione progettuale che deve assumere l’azione politica che si apre un confronto intrecciato sull’identità comunista e sull’identità cattolica in una città così peculiare come Bergamo. Ricordo, per esempio, la nascita del Comitato per la libertà del Vietnam formato dai segretari di tutti i partiti e con l’adesione di undici sacerdoti, tra cui Padre Turoldo.Ma l’episodio clou che segna nel profondo il percorso di rinnovamento del Pci a Bergamo è il discorso dedicato alla questione cattolica che Togliatti tiene in città il 20 marzo del 1963 a conclusione di una conferenza programmatica del partito. Quel discorso, intitolato successivamente I destini dell’uomo sulle pagine del settimanale Rinascita, costituisce un evento per Bergamo. Io, che ero ancora segretario della Federazione, ero riuscito a ottenere da Togliatti l’impegno a pronunciare un intervento di spessore nonostante ci trovassimo nel corso di una impegnativa campagna elettorale. Nel 1963 eravamo nel pieno del pontificato innovatore di Giovanni XXIII (Papa Roncalli, occorre ricordarlo, aveva le sue radici proprio nel cattolicesimo popolare bergamasco) e si era già aperto il Concilio Vaticano II che innoverà la dottrina della Chiesa. Togliatti colloca il suo discorso proprio in quello scenario che scuote il conservatorismo cattolico. Sul piano politico, inoltre, occorre tenere a mente che si era concluso il centrismo dei governii Scelba e Tambroni e che nel 1963 – anno che segnerà un positivo avanzamento del Pci nelle elezioni politiche – il quadro era segnato dal primo governo di centrosinistra guidato da Amintore Fanfani.Togliatti pronuncia parole destinate a pesare a livello nazionale e nella concreta situazione di Bergamo: individua nuove opportunità per l’incontro tra cattolici e comunisti (non solo il Concilio, ma l’esisto del XX Congresso del Pcus: quello della “destalinizzazione” avviata da Nikita Krusciov) accanto alla necessità di un impegno comune per la pace nell’epoca degli armamenti atomici. Per salvare una comune civiltà fatta di cultura e valori – dirà Togliatti – occorre l’azione congiunta di comunisti e cattolici. Il leader del Pci batte il tasto sul fatto che lo sviluppo neocapitalistico finisce per avvilire le potenzialità dell’uomo, che resta pur sempre il soggetto centrale dell’iniziativa sia dei comunisti sia dei cattolici. Dopo la morte di Togliatti, nel Pci si apre un confronto-scontro tra due opinioni: quella di Giorgio Amendola che propone un “partito unico” tra comunisti e socialisti mentre si svolge l’esperienza dei governi di centrosinistra e c’è stata la scissione del Psiup; quella di Pietro Ingrao che dà priorità al progetto e al valore innovativo delle riforme in un contesto di trasformazione del capitalismo italiano sottolineando il necessario rinnovamento del partito. Già in un Comitato centrale che aveva discusso la proposta di Amendola si ebbe il voto di dissenso di alcuni compagni (Luigi Pintor, Aniello Coppola, Ninetta Zandegiacomi, Aldo Natoli, il mio, mentre ricordo che Rossana Rossanda era assente per altri impegni dalla riunione). Quella divisione si riflette sulla vita della Federazione di Bergamo. Quando furono presentate le Tesi per l’XI Congresso, toccò a me illustrarle. Da un certo punto in poi precisai che parlavo a titolo personale perché dovevo spiegare il mio “no” nel Comitato centrale e soprattutto le mie riserve sulle Tesi.Quando si svolse il Congresso provinciale di Bergamo nei primi giorni di gennaio del 1966, toccò di nuovo a me – segretario della Federazione – fare la relazione introduttiva che ribadiva alcuni distinguo di linea e riecheggiava molte delle posizioni espresse in varie sedi da Pietro Ingrao. Quel congresso era seguito a nome del gruppo dirigente nazionale da Rinaldo Scheda, segretario aggiunto della Cgil. Fu proprio lui a tentare di smussare alcuni passaggi della mozione conclusiva del Congresso che esprimeva forti riserve sul documento di Tesi. Nel corso della riunione della Commissione politica che lavorava alla stesura della risoluzione finale, ci annunciò che avrebbe parlato nel Congresso contro le nostre posizioni a nome della Direzione nazionale (nel clima di quegli anni, l’annuncio equivaleva a una minaccia perché era fortissimo il senso di disciplina verso Botteghe Oscure). Scheda mantenne la parola, dopo che si rivelarono vani i suoi tentativi di cambiare la mozione.Ho riletto il numero di gennaio del 1966 de Il lavoratore bergamasco, che era il periodico della Federazione bergamasca del Pci. La mozione di quel Congresso provinciale fu approvata con due sole astensioni. In essa era ribadita una forte critica alla politica del centrosinistra, accanto alla necessità di rilanciare l’iniziativa operaia su un orizzonte di riforme in grado di disegnare nuovi scenari economici e sociali. In un passo di quel documento si legge: “Una nuova maggioranza non si realizza come confluenza di forze deluse dal centrosinistra intorno a un programma minimo. Può essere il frutto solo di un profondo processo di elaborazione e di azione politica, economica e sociale”. Ponevamo, infine, il tema della “democrazia interna” al partito: partecipazione degli iscritti alle scelte, loro pieno coinvolgimento anche quando – come nel caso del Comitato centrale che ho citato in precedenza – si verificavano dissensi nel gruppo dirigente nazionale. Si tratta di questioni che ritorneranno nel dibattito della sinistra comunista a cavallo del 1968 studentesco e del 1969 operaio, nel XII Congresso nazionale di Bologna del febbraio 1969 in cui la sinistra interna sarà emarginata dalla Direzione del partito, nel confronto che diede vita prima al mensile il manifesto e poi, quando arrivò la radiazione del suo gruppo promotore dal Pci, all’esperienza dell’omonimo gruppo politico.Voglio infine ricordare che dopo l’esito dell’XI Congresso a Bergamo fui escluso dal Comitato centrale: a quei tempi dissentire significava andare incontro a una reazione durissima da parte dell’apparato. Ci fu la protesta della mia Federazione e lo scontro tornò rovente, quando si dovettero decidere le candidature alla Camera nelle elezioni del 1968: l’intero Comitato federale sostenne il mio nome, mentre c’erano pressioni da Roma e da Milano affinché fossero penalizzate le nostre posizioni politiche. Ricordo questi episodi che mi riguardano solo perché testimoniano l’orientamento largamente maggioritario su cui si muoveva l’intera Federazione.Fu quindi naturale che proprio la Federazione di Bergamo, che aveva avuto quel ruolo nei dibattiti degli anni precedenti, fosse in prima linea nel novembre del 1969 contro le scelte del Comitato centrale che decise di radiare i promotori del manifesto mensile. Nel corso degli anni Sessanta avevamo maturato in una città di frontiera per i comunisti il bisogno di un profondo rinnovamento politico, culturale e organizzativo del Pci. A quel rinnovamento eravamo più sensibili proprio perché esposti all’egemonia tradizionale della Dc di cui scorgevamo le prime crisi. Il 3 novembre del 1969 venne approvato un ordine del giorno presentato da me nella riunione congiunta del Comitato federale e della Commissione di controllo di Bergamo che discuteva del “caso” del manifesto: con 24 voti a favore, 13 contro e 6 astenuti veniva bocciata la scelta di definire “attività frazionistica” la nascita del mensile. Ma qui inizia un’altra storia. (da il manifesto19 giugno 1999)
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