martedì, gennaio 04, 2005

Eliseo Milani, una storia comunista

Eliseo Milani, una storia comunista

Per come era, per le scelte difficili da lui compiute, per dove si è trovato a compierle, per il loro risultato concreto, la sua vita rappresenta un pezzo sconosciuto della storia dei comunisti italiani. Dal Pci al Manifesto, il percorso ricco, tenace e tormentato di uno dei fondatori di questo giornale. Un'esperienza, la sua, che anche ora offre molto da imparare


LUCIO MAGRI

Eliseo Milani è stato per me, in modo diverso ma non meno profondo di Michelangelo Notarianni, l'amico e il compagno di una vita. Tocca perciò a me scriverne nel giorno della sua morte, tanto più dolorosa e inattesa dopo che molti anni di malanni tanto gravi ci avevano persuasi non sarebbe mai venuta. La malattia l'aveva condannato a troppa solitudine. Che genera, almeno in me, un pesante senso di colpa che darebbe comunque una sfumatura di ipocrisia a qualsiasi elogio funebre. Del resto mi manca la penna raffinata e l'acutezza psicologica per tratteggiare una personalità così sensibile sotto la sua scorza così ruvida. Sono del resto troppo ostico per esprimere i miei sentimenti nei momenti di commozione più intima. Non è un male, forse: perché a un elogio funebre sfuggirebbe la cosa più importante. Il fatto cioè che Eliseo Milani, per come era, per le scelte difficili compiute, per dove si è trovato a compierle, per il loro risultato concreto, rappresenta un pezzo sconosciuto della storia dei comunisti italiani. La sua vita reale accuratamente raccontata dall'origine, offrirebbe ai futuri storici materiali forse più ricchi e più equanimi che non la lettura di tanti verbali della direzione del Pci volutamente elusivi, e di tanti dibattiti di comitati centrali sempre espressi in cifra e dunque da decifrare; e dare invece un'idea di ciò che il Pci è realmente stato, e anche di ciò che forse poteva diventare. E tanto più per sovvertire un'immagine adulterata oggi prevalsa, quella di un partito burocratizzato e fideistico, di una storia di ristretti gruppi dirigenti, e per di più di una storia «dei vincitori che si sono alla fine riconosciuti sconfitti e pentiti». Ma per raccontare quella vita occorrerebbero ben più che poche ore sovrastate dalle emozioni, e ben più che poche cartelle. Mi limiterò quindi, per giustificare questa affermazione e indicare alcuni punti per un lavoro di ricerca.

Una vita nel «partito nuovo»

La vita di Milani testimonia anzitutto nella sua concretezza come il partito nuovo di Togliatti non sia rimasto una intuizione di breve stagione subito soffocata dalla guerra fredda e dalla ortodossia neocominternista, e sopravvissuta solo come apertura agli intellettuali e ai ceti medi, come accorta gestione delle alleanze politiche. Il nocciolo di quell'ipotesi era trasformare i proletari in vera classe dirigente nazionale.

Eliseo era troppo giovane per partecipare alla guerra partigiana, la sua è la generazione politica degli anni Cinquanta.

Era di famiglia contadina, in una provincia, Bergamo, cattolica e conservatrice, dove i comunisti erano e rimasero sparuta minoranza. Andò a lavorare già a 11 anni e nei corsi aziendali della Dalmine prese il diploma di scuola media, e come tornitore e rimase a lavorare studiando la sera per diventare perito tecnico. E' dalla concreta vita operaia che arrivò al comunismo. Ricordava sempre, con giusto orgoglio, di uno sciopero generale nazionale che fece da solo, notificandolo all'azienda, perché non sembrasse un'assenza occasionale.

Furono anche queste testimonianze pratiche, comunque, che lo aiutarono a far crescere politicamente un gruppo di operai che cominciò a contare nella fabbrica, rompendo l'isolamento del Pci e superandone il settarismo. Proprio alla Dalmine, qualche anno dopo, si realizzò così la prima esperienza di una conferenza operaia comunista costruita sull'inchiesta, centrata sull'analisi delle innovazioni intervenute nell'organizzazione del lavoro, di cui Amendola, presente, colse il valore, sì da proporre di generalizzarla nella preparazione della conferenza operaia nazionale, in parallelo con la grande svolta avviata dalla Cgil dopo la sconfitta alla Fiat. Eliseo era stato nel frattempo chiamato al ruolo di funzionario di partito, e presto, a quello di segretario della federazione di Bergamo.

Funzionario: che brutta parola oggi, ma cosa era allora un funzionario, soprattutto in quella zona? Era uno che, rinunciando a un lavoro certo e ben avviato accettava di vivere con una retribuzione più bassa che spesso non arrivava mai e che si doveva alimentare con la sottoscrizione in sezioni disperse che si riunivano in piccole osterie; che dormiva su una branda in un angolo dell'ufficio: che passava le poche ore libere al caffè della Camera del lavoro, una specie di «centro sociale ante litteram».

Altro che casta burocratica. A diventare assessore e parlamentare allora non ci si pensava neppure: quella appariva quasi come una diminutio capitis, solo un riconoscimento finale di una vita bene spesa. In attesa di una rivoluzione prossima? Non scherziamo: il `48 era già alle spalle e a Bergamo sapevamo quanto lunga fosse la strada. Nel frattempo si lavorava oltre che a costruire lotte a formare quadri. Ed Eliseo visse come grande occasione la scuola delle Frattocchie.

Un indottrinamento? Anche qui, non scherziamo: a quei tempi gli insegnanti delle Frattocchie erano Cafagna, Caracciolo, Spinella e così via.

Il segretario del dialogo

Quale fu poi più avanti il Milani segretario? Un burocrate o un sacerdote operaista? L'esatto contrario. Oltre all'ininterrotta cura dei collettivi di fabbrica , quando, per la prima volta alla fine del volantinaggio ci trovammo di fronte intere grandi aziende da cui i lavoratori uscivano in massa per venire in piazza ( il grande salto del luglio `60 ) Eliseo permetteva lunghe, periodiche riunioni del comitato federale per studiare la storia d'Italia, curava con attenzione l' intervento in consiglio comunale dove un partito all'indice,e con il 9 per cento dei voti, ripetutamente riusciva a trascinare socialisti, ma anche socialdemocratici e liberali, sui grandi temi del piano regolatore, degli abusi edilizi perpetrati nel quadro delle nuove lottizzazioni patrocinate dal vescovo Bernareggi e da Carlo Pesenti. Infine, forse soprattutto, Eliseo avviò un coraggioso dialogo con i cattolici, non solo come alleati possibili, ma come comprimari, voluti e bene accetti. I dirigenti della gioventù cattolica bergamasca, grazie a quel dialogo, non solo si avvicinarono, ma diventarono parte integrante del vertice della federazione comunista. Non a caso fu Milani a promuovere l'assemblea in cui Togliatti pronunciò il famoso «discorso di Bergamo». Un discorso che dava all'alleanza con i cattolici una valenza strategica.

Del dissenso, dell'equilibrio, dell'energia

E' da questo intreccio di esperienze, di lotta e di maturazione culturale innovatrice, che nacquero nel Pci - certo non solo a Bergamo, ma un po' ovunque, per mille rivoli e con molti diversi approdi nel sindacato e nel partito - i primi embrioni di una minoranza non ufficializzata ma non irrilevante, che in seguito - quando fu trovato un riferimento nazionale, culturale e politico - prese il nome di ingraismo. Una sinistra non dogmatica e non settaria, che giocò, anche fuori dal Pci, la sua partita negli anni Sessanta e fu poi sconfitta e in parte repressa all'XI congresso del 1965. Ma che lasciò tra intellettuali e sindacalisti corpose sedimentazioni, e cercò di rilanciare la sfida di fronte al ben più maturo appuntamento del `68.

Quel lavoro precoce di Milani fu riconosciuto e gli valse l'ingresso nel Comitato centrale. Ma fu il solo segretario di federazione che all'XI Congresso non si allineò e ne venne subito escluso. Quando in due decisive occasioni, prima Lama e poi Scheda, vennero a presiedere il Congresso della federazione di Bergamo e chiesero ai compagni di scegliere tra la posizione del Comitato centrale e le critiche opposte da Eliseo, essi furono messi in minoranza. Milani era un dissidente, ma aveva un largo sostegno di base e questo fu il solo caso di dissidenza che resse anche alla radiazione del Manifesto nel `69. Milani si unì al nostro gruppo, e con lui i migliori quadri intellettuali e operai dell'organizzazione, assumendovi un ruolo dirigente.

Del ruolo che egli ebbe, del peso che conquistò in questa nuova esperienza non ho lo spazio ora di parlare come si dovrebbe. Ma vorrei che dicessero qualcosa altri compagni che pure hanno tutti gli elementi per farlo e aiuterebbero a correggere una sottovalutazione e un silenzio non innocente che più tardi si creò su di lui. Lo vorrei perché questo silenzio è connesso ad un punto delicato di quella nostra vicenda. Cioè ad una, in parte inconsapevole convinzione, secondo la quale trovandoci dopo la radiazione con idee certo anticipatorie ma molto controcorrente, con un'identità specifica, alla frontiera tra il Pci e i nuovi movimenti, ma senza una base precisa, sia stato un puro errore cercare di far vivere quella identità con una piccola organizzazione, un'autonoma elaborazione e un giornale quotidiano ad essa connesso. Onestamente credo che da quella scelta nacquero anche molti errori di analisi e di comportamento, ma più che mai sono convinto che fosse un rischio da correre e che abbia lasciato frutti positivi e ingiustamente lasciati disperdere.

Eliseo fu un pilastro di quel tentativo e lo sorresse nel modo migliore con la tenacia, l'equilibrio, l'energia che erano legati al suo passato. E lo restò finché fisicamente gliene restarono le forze. La stessa energia, il tratto genetico, con cui affrontò poi per più d'un decennio, una battaglia individuale ma ancor più eroica contro la malattia per conquistare ogni giorno un pezzo in più di vita, forse non più per cambiare il mondo ma per continuare a capirlo senza piegarsi, senza sentirlo estraneo, ma anzi restando attento e partecipe. Non credo che di fronte alla sua morte, si possa dire nulla di più grato e lusinghiero del riconoscere che quella vita non solo è stata spesa bene a suo tempo ma che anche ora offre molto da imparare.

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