domenica, aprile 10, 2005

Il rumore del sole che aiuta a vivere e a scrivere

Marcella Marcelli
Con Il rumore del sole (Il vicolo editore, euro 14.00, pp, 117), Saverio Tutino ci regala un nuovo capitolo della “saga” dedicata a se stesso. Un contributo prezioso, alla cui lettura c’introduce l’autore stesso, giornalista e scrittore, delineandone i tratti salienti: “Due amici e due miti spenti nella confusione della guerra fredda. Un amore mancato e uno riscaldato. Uno scudo infranto. Cinque racconti dall’infanzia alla vecchiaia”. In realtà, nelle pagine de Il rumore del sole c’è molto più di questo. Tutino ha inventato uno stile, “una modalità di raccontare la vita”, originale ed efficace, come ben sintetizza Lidia Ravera, che firma la presentazione: “Un uomo che vive viaggiando nella politica e per la politica, si muove fra Cuba e l’Uruguay, Parigi e Bruxelles, eppure non smette mai di viaggiare anche dentro se stesso”. E fa tutto questo, si può aggiungere, intrecciando coraggiosamente, senza enfasi, l’io e il mondo, la storia e le vicende più intime e dolorose. L’autore ripercorre gli ultimi venticinque anni della sua vita passando dalla rivoluzione cubana all’infarto, dal terrorismo brigatista al cancro, senza che variazioni di tono o di ritmo sottolineino il passaggio da una dimensione all’altra ma mantenendo sempre lo sguardo di chi cerca le radici degli avvenimenti nei quali è immerso. “Evocare un tempo lontano vuol dire anche riappropriarsi di sé”, si legge a pagina 82, e sta forse anche in questa affermazione il senso di una autobiografia scritta e riscritta continuamente, disseminata in una dozzina di libri e in innumerevoli articoli: un diario lungo come la vita. Il diario, l’autobiografia, come strumenti prediletti del “vedere sé attraverso gli altri”, pur riconoscendone il carattere di “scrittura essenzialmente inaffidabile”. L’abitudine e l’amore del viaggiare nel mondo degli altri, perché solo questo può fornire il respiro che manca quando si bada a sé, ha portato Tutino a dare vita a Pieve Santo Stefano al primo Archivio dell’Autobiografia popolare sorto in Europa. Cinquemila diari e memorie della cosiddetta “gente comune”, raccolti in vent’anni, dal 1984 al 2004, “per la memoria degli italiani”. Ma Il rumore del sole è soprattutto una lunga, sofferta riflessione sulla scrittura misura del mondo e medicina dell’anima (per Tutino, scrivere è diventato ancora di più un rovello dal 1989 in avanti, anno che ha cambiato il mondo e le certezze in cui aveva vissuto fino a quel momento: scrivere è servito pure a interrogarsi su quei cambiamenti senza ritrarsi in difesa). Le parole di Montaigne soccorrono l’autore nel cogliere il potere taumaturgico del raccontarsi: “Dipingendomi per gli altri mi sono dipinto a colori più netti che non fossero i primitivi. Non sono tanto io che ho fatto il mio libro quanto il mio libro che ha fatto me” (pagina 86). E, ancora, ricorrendo stavolta a Rousseau: “Capisco che il lettore non abbia troppa voglia di sapere tante cose, ma ho bisogno io di dirgliele”. Ma l’intenzione costante di non fare di se stesso “il personaggio principale della propria vita” emerge soprattutto dai ricordi di Saverio Tutino inviato speciale in America Latina, nella Francia di De Gaulle, nell’Urss di Stalin e nella Cina di Mao. Nei suoi viaggi l’incontro con destini spesso straordinari gli consente di usare il mito come punto d’appoggio per costruire una moderna cultura della resistenza contro i meccanismi del dominio del mondo ricco su quello povero. Tutino ha quarant’anni quando, nel 1962, l’Unità lo invia a Cuba. Viene dalla Resistenza in Piemonte e Valle D’Aosta (nel 1944 e 1945 era stato commissario politico della 76ª Brigata Garibaldi). A L’Avana ascolta Ernesto Guevara parlare ai giovani, dicendo loro che dovevano restare vigili, soprattutto di fronte all’ingiustizia, “capaci di disobbedire e di opporsi”, di “saper discutere e chiedere chiarimenti su tutto ciò che non è chiaro”. Mentre racconta Cuba, la memoria corre a un compagno di scuola, Lorenzo Milani. Lui e Tutino hanno frequentato lo stesso liceo a Milano, negli anni “in cui Mussolini imponeva il fascismo, un modo di vivere senza pensare”. Tutino, invece, che nel dopoguerra era diventato “giornalista militante”, ha pensato sempre che si potesse essere militanti “senza assecondare il modello di una cultura di partito”. Non così i dirigenti del Pci di allora, se è vero, come ricorda il protagonista di quelle vicende, che “Pajetta ripeteva che sembravo più militante del partito cubano che del partito italiano”. E, alla fine, Tutino pagherà con l’esonero la propria libertà intellettuale che continua a esercitare tuttoggi.Ultima annotazione. Nei racconti che hanno date più recenti e forma più esplicita di diario, ricorre ripetutamente il nome di Gloria: la compagna e la moglie a cui questo libro è dedicato. Insieme, ascoltano “il rumore del sole”.

Le nostre ultime conversazioni erano all’insegna del futuro

Un uomo e un dirigente politico a tutto tondo
Le nostre ultime conversazioni erano all’insegna del futuro


Alfonso Gianni

Liberazione 29 dicembre 2004
Ho conosciuto Eliseo Milani tardi. Tardi, relativamente alla sua lunghissima militanza politica. Ormai è passato esattamente un quarto di secolo che non è certo poco nella frequentazione tra persone. Lo conobbi che lui era già un'autorità nel variegato campo della sinistra alla sinistra del Pci. Per di più aveva avuto un passato importante nel Pci, particolarmente in quel di Bergamo; aveva fatto parte del gruppo storico del Manifesto; era un dirigente del Pdup. Lo conobbi in una circostanza tra le meno propizie, nel corso di una trattativa che per quanto limitata fu anche aspra e che ci vedeva di fatto contrapposti, ognuno a rappresentare gli interessi legittimi della propria organizzazione. Si trattava di decidere gli accordi elettorali tra Pdup e Mls per le elezioni politiche del 1979. Eliseo incuteva un certo timore, aveva fama di uomo burbero e comportamenti spesso scontrosi. Non faceva grandi giri di parole e andava al sodo. La circostanza era quindi quella dove può nascere un odio o un amore, l'indifferenza era esclusa. Da parte mia nacque una stima e un affetto profondi. Che solo un comprensibile ritegno mi impediscono di definire con un sostantivo più impegnativo. Quella stima e quell'affetto si sono rafforzati negli anni, nel lavoro politico e parlamentare, nella frequentazione privata, quest'ultima diventata particolarmente intensa quando le condizioni di salute lo costrinsero ad abbandonare la politica attiva. Ma Eliseo non abbandonò certo il filo di un lungo ragionamento politico che egli continuamente proponeva, fornendo consigli sempre dettati da un grande senso della realtà. Chi ritenesse che Eliseo non sia stata prevalentemente un teorico, direbbe il vero; ma chi pensasse che egli sia stato essenzialmente un buon organizzatore ed un tenace uomo di partito, coglierebbe solo un piccolo aspetto della sua più complessa personalità. Eliseo è stato un uomo e un dirigente politico a tutto tondo. La grande politica era la sua passione. La politica comunista, quella che non può nemmeno essere pensata senza una profonda conoscenza dei movimenti reali della società, senza una intensa connessione sentimentale con il popolo.
Qui stavano le radici di Eliseo. Lo dimostravano anche i suoi racconti, quando parlava della vita concreta di tanti anni fa, nelle valli bergamasche, di quella dignitosa ma severa povertà, che egli ricordava senza lacrimosità né retorica, anzi con quella ironica nostalgia che caratterizza le persone che hanno il senso della storia e della complessità delle vicende umane. Se vi capitasse di entrare nell'ultima casa abitata da Eliseo a Roma, la trovereste pieni di libri di storia e di storia delle idee, più che di cronache politiche. Ma proprio queste letture, conquistate senza avere avuto la fortuna di una formazione scolastica adeguata a quella che è stata la sua vita, gli permettevano di alimentare fiuto ed intuito politico e di meritare una considerazione anche in ambiti molto diversi dai nostri che non è mai venuta meno.
La sua vicenda politica appare, almeno a me, paradigmatica ed invidiabile. Eliseo è stato un costruttore del comunismo italiano, ma non si è mai adagiato sui suoi risultati. Ha sempre scelto una strada in salita e scomoda, guardando in avanti e non indietro a quello che lasciava, e l'ha percorsa con intelligenza, coraggio e grande umanità, appena velata, forse per atavico pudore, dalle spigolosità del carattere.
Ora questa vita si è conclusa. La sua fine non ci giunge inattesa, ma non per questo meno dolorosa. Negli ultimi tempi la sua esistenza era come una corda che si tendeva sempre di più, pronta a spezzarsi in ogni momento, ma la forza del suo animo e persino del suo umore non l'hanno mai abbandonato. Le nostre ultime conversazioni erano all'insegna del futuro, sia per le grandi come per le piccole cose. Posso pensare, perciò, che si sia spento sereno. Sono convinto che l'ha fatto anche per non farci soffrire. Ciao, Eliseo.

Matteo Rossi nuovo segretario della Sinistra Giovanile

Matteo Rossi nuovo segretario della Sinistra Giovanile
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Roncalli su 18/1/2005 15:48:00 ( Trizio Web )
Matteo Rossi è stato eletto segretario dei Democratici di Sinistra della Città di Bergamo durante il congresso di sabato scorso con il 71% dei voti dei delegati. Rossi, 28 anni, laureando in scienze politiche, membro della rete del Nuovo Municipio, negli ultimi tre anni è stato segretario provinciale della Sinistra giovanile, incarico assunto dopo anni di formazione all’impegno socio-politico nell’Oratorio di Bonate Sopra e nel Vicariato dell’Isola bergamasca. Al Congresso dei DS non ha aderito alcuna mozione, sostenendo invece le linee espresse dal “documento dei 22” e rifacendosi alle posizioni espresse da leaders nazionali come Walter Veltroni, Giovanna Melandri, Sergio Cofferati. A livello locale ha partecipato al congresso attraverso un documento intitolato “Capovolgiamo le piramidi” sostenuto in modo trasversale all’interno del partito. Nella sua relazione introduttiva Rossi ha ricordato le figure dei compagni Eliseo Milani e Fioravante Branca, ha individuato come funzione principale dei DS di Bergamo in questo periodo storico la costruzione di un popolo e una dimensione europea a partire dal basso, in particolare dalle scelte e dagli stili amministrativi del Consiglio comunale e della Giunta Bruni. Ha inoltre posto come uno dei temi prioritari la riforma organizzativa del partito, una maggior apertura e la capacità di sperimentare nuove forme di democrazia partecipata dentro il centrosinistra e sul territorio cittadino a partire dalla costruzione della Federazione dell’Ulivo e della Grande Alleanza Democratica come casa comune e partecipata per tutto il popolo del centrosinistra. Ha infine posto come temi decisivi per la città la risoluzione della vicenda Gleno, l’adozione di un fondo per la cooperazione internazionale e l’avvio di progetti per una Bergamo ecostostenibile e multiculturale. Nelle prossime settimane la nomina della segreteria e degli incarici tematici completeranno il quadro del nuovo gruppo dirigente diessino in città.Matteo Rossi è contattabile attraverso i seguenti canali: mail:
mat.ro@virgilio.it cellulare: 3480469799fisso: 035248180

La conclusione di un'esperienza politica

La conclusione di un'esperienza politica
Vent'anni fa il PdUP confluiva nel PCI


Vent'anni fa, tra l'estate e l'autunno del 1984, si concludeva la vicenda politica del PdUP per il Comunismo, con la confluenza (per molti si trattava di un ritorno) della grande maggioranza dei suoi quadri nel PCI.
Una storia importante per chi l'ha vissuta, ma anche per l'anomalia rappresentata dalla "multiformità" di questa formazione politica, tra rotture, scissioni e aggregazioni (i tempi erano davvero diversi dagli attuali...) a cavallo tra la tradizionale sinistra comunista e la nuova sinistra d'estrazione sessantottina; tra la "forma partito" classica e la specificità della contigua (e, nella prima fase, sovrapposta) esperienza del "Manifesto", rivista, gruppo politico, quotidiano.
Non dispongo, com'è noto, delle capacità culturali per analizzare adeguatamente l'esperienza del PdUP (al momento dello scioglimento uscì un mirabile istant-book, redatto da Aldo Garzia), ma intendo egualmente correre il rischio di scriverne, sia pure brevemente, proprio perché mi è capitato di partecipare a quell'esperienza, dall'inizio alla fine. La storia del PdUP è strettamente connessa con quella del "Manifesto", gruppo politico interno al PCI aggregatosi dopo l'XI Congresso del 1966. Un gruppo politico che rappresentò, a quel punto nell'immediato post-Togliatti (a giudizio di Rossana Rossanda), l'ultima e forse più coerente, completa e radicale espressione della tesi gramsciana prima, ed ingraiana poi, della "guerra di posizione" come forma matura e presente nella rivoluzione italiana.
Il Manifesto nacque attorno a questo nucleo originario di pensiero, come dissidenza interna al PCI: solo in seguito si pose come punto di riferimento d'esperienze diverse o affini. Una dissidenza interna al PCI che aveva preso le mosse dalla ripresa delle lotte verificatasi alla fine degli anni'50, attraverso l'elaborazione delle tematiche del capitale e della fabbrica (si pensi a Panzieri ed ai "Quaderni Rossi"); dall'impatto dei fatti del Luglio '60 (ultimi fuochi della Resistenza o primi vagiti del '68?); sulla riarticolazione dell'analisi sociale, che il PCI svolse fino alla
morte di Togliatti, anche di fronte all'avvento del primo centrosinistra; alla battaglia per la successione dello stesso Togliatti, scomparso nell'estate del 1964, che si arrestò però su di una linea che non riconobbe, davvero, la radicalità della "guerra di posizione".
L'esplosione del '68, la vicenda della "Primavera di Praga" e la successiva invasione della Cecoslovacchia, definirono la posizione di molti dei più prestigiosi compagni che avevano animato, fino a quel punto, la battaglia ingraiana (cui lo stesso Ingrao aveva imposto, sbagliando, il limite di separare l'idea della guerra di posizione, dall'idea della "rottura") fino a far precipitare l'esclusione dal Partito (Novembre 1969; in precedenza, in quello stesso autunno era uscito il primo numero della rivista, accolto con grande curiosità in molti ambienti della sinistra italiana) di Pintor, Rossanda, Natoli; Eliseo Milani, Magri, Castellina, Maone.
Il gruppo del manifesto (mentre attuò la trasformazione della rivista in quotidiano) tentò, allora, diverse strade per l'aggregazione delle forze antagoniste presenti allora nel panorama politico. L'aggregazione più importante fu tentata con gli esponenti dell'ex PSIUP non confluiti nel PCI, dopo la sconfitta elettorale del 1972 (la carta elettorale fu tentata, in quell'occasione, anche dal Manifesto, presentando la candidatura di Pietro Valpreda, in quel momento detenuto per la strage di Piazza della Fontana, con esito fortemente negativo). L'incontro tra gruppo del Manifesto ed ex PSIUP diede origine, nel 1974, alla formazione del PdUP per il Comunismo. Si trattò di una vicenda complessa, il cui scenario di fondo fu rappresentato dalle contraddittorie e drammatiche vicende di quegli anni, contrassegnati dal terrorismo, da una profonda crisi economica, dall'esperienza (tentata dal PCI) della "solidarietà nazionale".
Nel PdUP non vi fu mai vera integrazione tra i due gruppi dirigenti, provenienti da esperienze profondamente diverse e divisi sulle valutazioni di fondo della crisi, e sulle esigenze programmatiche che ne derivavano, per governarla (un'impostazione, quella del "governo della crisi", proveniente dal gruppo del manifesto, in particolare su iniziativa di Lucio Magri, autore, nel Gennaio del 1974, di un importante documento sul tema). La rottura tra Manifesto ed ex PSIUP si verificò definitivamente nel 1977, al culmine dell'esperienza di solidarietà nazionale, che aveva seguito l'esito elettorale del 20 Giugno 1976 e dell'imperversare del terrorismo (che con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, nella primavera del 1978, avrebbe raggiunto il vertice della propria parabola), dopo che già in occasione della presentazione elettorale alle politiche del 1976 si erano avuti segnali di spaccatura (da una parte Foa, Miniati, Capanna, che nel 1975 era stato eletto consigliere regionale in Lombardia, erano per un "listone" unico dei rivoluzionari comprendente Lotta Continua, che poi si fece sotto il simbolo di Democrazia Proletaria raccogliendo un risultato modesto, proprio nel momento della massima espansione elettorale del PCI; dall'altra i dirigenti del "Manifesto" che avrebbero preferito una presentazione elettorale maggiormente omogenea ed "identitaria" di una precisa area della "nuova sinistra", fino a comprendere Avanguardia Operaia).
Negli anni successivi si verificarono altri momenti di rottura e ricomposizione (congresso di Viareggio 1978, con la separazione "incrociata" tra esponenti del "Manifesto", segnatamente con Rossanda e Parlato, e di AO, segnatamente Aurelio Campi, dovuta a divergenze sulla valutazione di fondo circa l'andamento e le prospettive della "solidarietà nazionale", e il rapporto con i movimenti che avevano contrassegnato quella fase degli ultimi anni'70; congresso di Roma del 1981, con la confluenza nel PdUP del gruppo milanese dell'MLS, guidato da Luca Cafiero). Il PdUP, pur profondamente modificato nella sua composizione da questi successivi processi di distacco e di avvicinamento, non abdicò mai al tentativo di rappresentare un punto di riferimento provvisto, nell'ambito della sinistra italiana, di una propria identità di analisi culturale, senza rinunciare, nello stesso tempo, ad in indicare una prospettiva politicamente e programmaticamente praticabile (l'alternativa).
Tra la fine degli anni'70 (una fase contrassegnata, nel PdUP, dalla scelta positiva di presentazione autonoma alle elezioni del 1979, mentre contemporaneamente falliva un nuovo progetto di aggregazione dei "rivoluzionari", presentatosi sotto l'insegna del cartello di N.S.U.) ed i primi anni'80, si agitò ancora un dibattito tra la scelta di cercare di rappresentare un "terzo polo" nella sinistra, e quella di collocarsi decisamente all'interno dell'area comunista, funzionando, nella sostanza, da stimolo critico esterno e da soggetto del dibattito rivolto essenzialmente verso la necessità di una trasformazione del PCI, che, abbandonata la linea della "solidarietà nazionale" su iniziativa del segretario Enrico Berlinguer, stava schierandosi (pur con grandi contraddizioni interne) sulla linea dell'alternativa democratica.
Nel PdUP prevalse, se mi è consentito un "giudizio sintetico a priori" la scelta dell'area comunista, ed in questo senso si realizzò con il PCI l'accordo elettorale del 1983, il cui esito dimostrò la grande capacità di interlocuzione di cui i dirigenti del PdUP disponevano, presso la base e l'elettorato del PCI. L'accordo PCI-PdUP si rinnovò alle Elezioni Europee del 1984:
la morte di Enrico Berlinguer, avvenuta proprio nel corso di quella campagna elettorale, non solo accelerò il processo di crisi e di divisione interna del PCI, ma strinse anche i margini di manovra politica autonoma del PdUP, all'interno dell'area comunista. Derivò così la scelta di confluire nel PCI, concordata con il successore di Berlinguer, Alessandro Natta.
Si trattò di una decisione problematica, accettata dalla stragrande maggioranza del PdUP (non confluirono nel PCI, tra i dirigenti di maggior spicco: Ivano Di Cerbo, Eliseo Milani e Lidia Menapace, quest'ultima in virtù di una sua elaborazione sulla crisi della politica e sul rapporto con i movimenti, fortemente anticipatrice della situazione che si sarebbe creata negli anni a venire). La confluenza del la tessera de Il Manifesto per il Comunismo del 1974 e quella del PdUP dell'anno seguentePdUP nel PCI si inserì, quindi, all'interno della complessa vicenda della parte conclusiva della vita del PCI dimostrando, attraverso la capacità di riflessione e di proposta di quelli che erano stati i suoi principali dirigenti nel periodo conclusivo (con Magri e Castellina, rappresentanti del filo rosso di continuità con l'esperienza degli anni'60, si possono citare Pettinari, Vita, Crucianelli, Serafini) una particolare incisività all'interno della tormentata vicenda della fase di scioglimento del partito, dopo la svolta di Occhetto alla "Bolognina" (si pensi, in particolare, alla relazione svolta da Lucio Magri, al seminario di Arco dell'Ottobre 1990, organizzato dall'area del "NO": una relazione che può essere ancora presa di esempio, quale proposta di un concreto rinnovamento dell'identità comunista italiana).
Diverso fu, invece, l'esito della confluenza di una parte dell'ex gruppo dirigente del PdUP all'interno del progetto di Rifondazione Comunista: i tempi (come si diceva all'inizio) erano irrimediabilmente cambiati e proprio la difficoltà incontrata in quell'occasione dimostrò come, in chiusura, l'esperienza politica originata dal "Manifesto" e poi proseguita con il PdUP (mantenendo, ovviamente, l'avvertenza di tutti i mutamenti nella "composizione sociale" accumulatisi nel corso degli anni) fosse davvero legata ad una particolare, specifica, visione dell'area comunista, con riferimento a quello che era stato, con la sua grandezza, le sue contraddizioni, le sue tragedie il PCI.
Se mi è consentita una valutazione conclusiva, di fondo, posso affermare che il punto di continuità all'interno della vicenda del "Manifesto", gruppo politico, e poi del PdUP come partito, è stato rappresentato dalle tre grandi domande rivolte al PCI, alla fine degli anni'60, dal gruppo di coloro che ne erano stati radiati: la prima domanda riguardava una diversa considerazione dei rapporti sociali e l'attualità di una rottura in Occidente; la seconda domanda riguardava l'urgenza di un'articolazione nella collocazione internazionale, superando fin da quel tempo il legame di fedeltà con l'URSS (un tema sul quale Manifesto e PdUP tennero ferme le posizioni fino ad organizzare, nel 1978 a Venezia, il primo convegno con la partecipazione dei dissidenti "da sinistra" dell'Est. Convegno cui il PCI non ritenne di dover partecipare ufficialmente) la terza domanda si poneva al riguardo dell'aprire la vita del partito alla contaminazione culturale e alla possibilità di rappresentazione di diverse posizioni politiche al suo interno.
Tre punti che, esposti adesso, credo facciano ancora meditare chi visse, pur in diversa posizione, quella fase ormai lontana.
Franco AstengoAgosto 2004

Bergamo, quando nacque "Il Manifesto"

Bergamo, quando nacque "Il Manifesto"

Eliseo Milani
Una città punto di forza del gruppo del Manifesto è stata Bergamo. Qui la sinistra comunista ha potuto contare su adesioni e consenso fin dal 1965, anno preparatorio dell’XI Congresso del Pci che si sarebbe poi svolto a Roma nel gennaio del 1966. Perché proprio Bergamo, città tradizionalmente bianca e dalla forte presa elettorale della Dc?Prima di parlare della vicenda specifica della sinistra comunista, bisogna ricordare che all’inizio degli anni Cinquanta un gruppo di giovani intellettuali abbandonò la Dc chiedendo un’apertura a sinistra per il mondo cattolico: Lucio Magri, Giuseppe Chiarante e Carlo Leidi erano i battistrada. Tutti e tre entrarono in tappe diverse nel Pci nonostante qualcuno a Roma – per esempio Giancarlo Pajetta – avrebbe preferito che costituissero un’organizzazione della sinistra cattolica in grado di impensierire la Dc. Magri avrebbe diretto con Rossana Rossanda il manifesto mensile, Chiarante si sarebbe astenuto sulla nostra radiazione dal Pci, Leidi non si sarebbe mai stancato di occuparsi delle vicissitudini del manifesto quotidiano mettendo le sue doti di atipico notaio al servizio del giornale. Io stesso, che sono stato per undici anni segretario della Federazione comunista di Bergamo, ho fatto parte della pattuglia di deputati che nel 1969 aderirono al manifesto e furono radiati dal Pci (con me, c’erano Massimo Caprara, Luigi Pintor, Aldo Natoli e Liberato Bronzuto).L’esisto dell’XI Congresso del Pci a Bergamo – il primo nella storia di quel partito nel quale una federazione abbia votato a maggioranza un documento in contrasto con il gruppo dirigente nazionale – è l’approdo di un lungo e tormentato dibattito, ma anche di alcuni processi politici che proprio nel capoluogo lombardo si erano dispiegati in nodo originale. Bergamo, all’inizio degli anni Sessanta, era una città dove i comunisti restavano inchiodati al 7-10%. Nelle liste per le comunali i candidati erano quasi tutti operai, con l’eccezione di un medico e di uno o due impiegati. La Dc poteva godere della maggioranza assoluta dei consensi, mentre a noi toccava la rappresentanza della classe operaia delle fabbriche (Dalmine e Ilva in primo luogo). I 100 mila lavoratori del bergamasco erano presenti in due settori fondamentali: tessile-abbigliamento e meccanico-metallurgico. Il Pci, nel dopoguerra, si era soprattutto impegnato a radicare il partito in fabbrica. Il “partito nuovo” di Togliatti non era certo chiuso e autosufficiente nelle alleanze, ma anche a Bergamo vigeva la norma che solo le lotte operaie (sindacali e politiche) potessero spostare a sinistra altri ceti sociali e creare contraddizioni nell’area cattolica cui faceva riferimento il colosso democristiano. C’è da aggiungere, però, che molto spesso l’azione del partito rischiava di scadere in una sorta di debole “fabbrichiamo”: il Pci diventava puro e semplice supporto della lotta sindacale.Ma proprio nei primi anni Sessanta, che sono quelli del boom economico e di una prima modernizzazione dell’Italia, si avvia un’incrinatura del fronte cattolico tradizionale. Il Pci, cui non basta più conservare la propria forza in fabbrica, cerca di dotarsi di una presenza più generalizzata nella società. E’ in quel momento che cerchiamo di avere un progetto alternativo sulla città, a iniziare dalla lotta sul piano urbanistico, e mettiamo a punto un progetto di collegamento fra il futuro della città e le valli circostanti. E’ proprio sulla nuova dimensione progettuale che deve assumere l’azione politica che si apre un confronto intrecciato sull’identità comunista e sull’identità cattolica in una città così peculiare come Bergamo. Ricordo, per esempio, la nascita del Comitato per la libertà del Vietnam formato dai segretari di tutti i partiti e con l’adesione di undici sacerdoti, tra cui Padre Turoldo.Ma l’episodio clou che segna nel profondo il percorso di rinnovamento del Pci a Bergamo è il discorso dedicato alla questione cattolica che Togliatti tiene in città il 20 marzo del 1963 a conclusione di una conferenza programmatica del partito. Quel discorso, intitolato successivamente I destini dell’uomo sulle pagine del settimanale Rinascita, costituisce un evento per Bergamo. Io, che ero ancora segretario della Federazione, ero riuscito a ottenere da Togliatti l’impegno a pronunciare un intervento di spessore nonostante ci trovassimo nel corso di una impegnativa campagna elettorale. Nel 1963 eravamo nel pieno del pontificato innovatore di Giovanni XXIII (Papa Roncalli, occorre ricordarlo, aveva le sue radici proprio nel cattolicesimo popolare bergamasco) e si era già aperto il Concilio Vaticano II che innoverà la dottrina della Chiesa. Togliatti colloca il suo discorso proprio in quello scenario che scuote il conservatorismo cattolico. Sul piano politico, inoltre, occorre tenere a mente che si era concluso il centrismo dei governii Scelba e Tambroni e che nel 1963 – anno che segnerà un positivo avanzamento del Pci nelle elezioni politiche – il quadro era segnato dal primo governo di centrosinistra guidato da Amintore Fanfani.Togliatti pronuncia parole destinate a pesare a livello nazionale e nella concreta situazione di Bergamo: individua nuove opportunità per l’incontro tra cattolici e comunisti (non solo il Concilio, ma l’esisto del XX Congresso del Pcus: quello della “destalinizzazione” avviata da Nikita Krusciov) accanto alla necessità di un impegno comune per la pace nell’epoca degli armamenti atomici. Per salvare una comune civiltà fatta di cultura e valori – dirà Togliatti – occorre l’azione congiunta di comunisti e cattolici. Il leader del Pci batte il tasto sul fatto che lo sviluppo neocapitalistico finisce per avvilire le potenzialità dell’uomo, che resta pur sempre il soggetto centrale dell’iniziativa sia dei comunisti sia dei cattolici. Dopo la morte di Togliatti, nel Pci si apre un confronto-scontro tra due opinioni: quella di Giorgio Amendola che propone un “partito unico” tra comunisti e socialisti mentre si svolge l’esperienza dei governi di centrosinistra e c’è stata la scissione del Psiup; quella di Pietro Ingrao che dà priorità al progetto e al valore innovativo delle riforme in un contesto di trasformazione del capitalismo italiano sottolineando il necessario rinnovamento del partito. Già in un Comitato centrale che aveva discusso la proposta di Amendola si ebbe il voto di dissenso di alcuni compagni (Luigi Pintor, Aniello Coppola, Ninetta Zandegiacomi, Aldo Natoli, il mio, mentre ricordo che Rossana Rossanda era assente per altri impegni dalla riunione). Quella divisione si riflette sulla vita della Federazione di Bergamo. Quando furono presentate le Tesi per l’XI Congresso, toccò a me illustrarle. Da un certo punto in poi precisai che parlavo a titolo personale perché dovevo spiegare il mio “no” nel Comitato centrale e soprattutto le mie riserve sulle Tesi.Quando si svolse il Congresso provinciale di Bergamo nei primi giorni di gennaio del 1966, toccò di nuovo a me – segretario della Federazione – fare la relazione introduttiva che ribadiva alcuni distinguo di linea e riecheggiava molte delle posizioni espresse in varie sedi da Pietro Ingrao. Quel congresso era seguito a nome del gruppo dirigente nazionale da Rinaldo Scheda, segretario aggiunto della Cgil. Fu proprio lui a tentare di smussare alcuni passaggi della mozione conclusiva del Congresso che esprimeva forti riserve sul documento di Tesi. Nel corso della riunione della Commissione politica che lavorava alla stesura della risoluzione finale, ci annunciò che avrebbe parlato nel Congresso contro le nostre posizioni a nome della Direzione nazionale (nel clima di quegli anni, l’annuncio equivaleva a una minaccia perché era fortissimo il senso di disciplina verso Botteghe Oscure). Scheda mantenne la parola, dopo che si rivelarono vani i suoi tentativi di cambiare la mozione.Ho riletto il numero di gennaio del 1966 de Il lavoratore bergamasco, che era il periodico della Federazione bergamasca del Pci. La mozione di quel Congresso provinciale fu approvata con due sole astensioni. In essa era ribadita una forte critica alla politica del centrosinistra, accanto alla necessità di rilanciare l’iniziativa operaia su un orizzonte di riforme in grado di disegnare nuovi scenari economici e sociali. In un passo di quel documento si legge: “Una nuova maggioranza non si realizza come confluenza di forze deluse dal centrosinistra intorno a un programma minimo. Può essere il frutto solo di un profondo processo di elaborazione e di azione politica, economica e sociale”. Ponevamo, infine, il tema della “democrazia interna” al partito: partecipazione degli iscritti alle scelte, loro pieno coinvolgimento anche quando – come nel caso del Comitato centrale che ho citato in precedenza – si verificavano dissensi nel gruppo dirigente nazionale. Si tratta di questioni che ritorneranno nel dibattito della sinistra comunista a cavallo del 1968 studentesco e del 1969 operaio, nel XII Congresso nazionale di Bologna del febbraio 1969 in cui la sinistra interna sarà emarginata dalla Direzione del partito, nel confronto che diede vita prima al mensile il manifesto e poi, quando arrivò la radiazione del suo gruppo promotore dal Pci, all’esperienza dell’omonimo gruppo politico.Voglio infine ricordare che dopo l’esito dell’XI Congresso a Bergamo fui escluso dal Comitato centrale: a quei tempi dissentire significava andare incontro a una reazione durissima da parte dell’apparato. Ci fu la protesta della mia Federazione e lo scontro tornò rovente, quando si dovettero decidere le candidature alla Camera nelle elezioni del 1968: l’intero Comitato federale sostenne il mio nome, mentre c’erano pressioni da Roma e da Milano affinché fossero penalizzate le nostre posizioni politiche. Ricordo questi episodi che mi riguardano solo perché testimoniano l’orientamento largamente maggioritario su cui si muoveva l’intera Federazione.Fu quindi naturale che proprio la Federazione di Bergamo, che aveva avuto quel ruolo nei dibattiti degli anni precedenti, fosse in prima linea nel novembre del 1969 contro le scelte del Comitato centrale che decise di radiare i promotori del manifesto mensile. Nel corso degli anni Sessanta avevamo maturato in una città di frontiera per i comunisti il bisogno di un profondo rinnovamento politico, culturale e organizzativo del Pci. A quel rinnovamento eravamo più sensibili proprio perché esposti all’egemonia tradizionale della Dc di cui scorgevamo le prime crisi. Il 3 novembre del 1969 venne approvato un ordine del giorno presentato da me nella riunione congiunta del Comitato federale e della Commissione di controllo di Bergamo che discuteva del “caso” del manifesto: con 24 voti a favore, 13 contro e 6 astenuti veniva bocciata la scelta di definire “attività frazionistica” la nascita del mensile. Ma qui inizia un’altra storia. (da il manifesto19 giugno 1999)
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